Sbarco Alleato a Gela
Soldati italiani usati come scudi umani
durante l’occupazione americana
di Gela del 1943
Il 10 luglio 1943 Gela e la sua costa furono l’epicentro di vicende mondiali. La storia di Gela divenne storia nazionale e mondiale e la storia nazionale e mondiale si fece storia gelese. Molti autori hanno scritto sullo sbarco degli Alleati nell’Isola e sulle varie fasi delle Campagna di Sicilia, conclusasi con l’occupazione di Messina il 17 agosto del 1943, però, pochi di essi, hanno trattato gli aspetti negativi che hanno contraddistinto le Forze occupanti, aspetti che per diversi decenni non sono stati approfonditi a dovere. Ci riferiamo non solo al coinvolgimento della mafia e di personaggi traditori della patria ma anche al cosiddetto “fuoco amico” e a diverse stragi commesse dagli americani nel territorio tra Gela, Acate e Comiso ai danni di prigionieri, civili e carabinieri subito dopo lo sbarco a Gela. Spesso sui libri si legge che durante lo sbarco americano in Sicilia i soldati italiani si arresero vuoi per codardia vuoi per la esiguità o esaurimento delle munizioni; falso per quanto riguarda la codardia, vero per quanto riguarda le munizioni. Non rosponde a verità che i soldati italiani, in tale occasione, pensarono soltanto a fuggire e che soltanto quelli tedeschi seppero tener testa agli invasori, cosa questa non rispondente spesso a verità. Esistono precise testimonianze che attestano che le quattro divisioni italiane Assetta, Aosta, Livorno e Napoli furono sempre presenti sul campo di battaglia ed operarono in modo da rendere possibili notevoli movimenti tattici. Infatti, durante lo sbarco, numerosi e pregnanti furono gli atti di eroismo dei militari italiani della Divisione Livorno i quali, anche se per breve tempo, riuscirono a rallentare l’avanzata dell’imponente armata americana; di essi si ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che trovò gloriosa morte nel fortino di Porta Marina, il sottotenente carrista Angelo Navari che col suo carro armato, nei pressi di Piazza Umberto I, riuscì a impegnare una compagnia di soldati americani, il maggiore Enrico Artigiani, il colonnello Mario Mona e tante altre centinaia e centinaia di soldati che con il sacrificio della loro vita difesero il patrio suolo. Ma la motivazione della resa di interi reparti italiani che combatterono strenuamente a Gela, probabilmente fu dovuta anche ad un altro motivo. Lo scrivente, in merito ad una ricerca nell’archivio storico militare di Roma, è nelle condizioni di dimostrare che sicuramente un caso di resa di un reparto italiano, avvenuto nella prima giornata dello sbarco Alleato a Gela, fu dovuto al fatto che gli americani in un’azione di guerra avanzarono dietro una moltitudine di prigionieri italiani, questi ultimi dunque utilizzati come scudi umani, tant’è che i nostri soldati allora non poterono fare altro che arrendersi anziché sparare sui loro commilitoni; già lo sbarco sulla spiaggia di Gela era iniziato fin dalle ore 3,00 e posizione su posizione i soldati italiani arretrarono martellati incessantemente dai cannoni delle navi americane. Mi piace riportare qui quanto si legge in una “Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera a firma del Generale di Brigata Comandante Orazio Mariscalco del 10 luglio 1943: “…Ore 9,20: il Col. Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”. Una comunicazione di due righe su una pagina ingiallita dal tempo, a firma di un colonnello dell’esercito italiano, rimasta sconosciuta all’interno di un faldone, che mette in luce per la prima volta in assoluto un caso così clamoroso. Certamente questo espediente, purtroppo vincente, nulla vieta a far pensare che sia stato utilizzato dai comandi americani anche in altre occasioni. Non si dimentichi del clima che si instaurò tra le truppe americane in relazione alle direttive del Gen. Patton diramate prima dello sbarco in Sicilia e di cui si riporta uno stralcio: “Quando effettueremo sbarchi contro il nemico, non dimenticate di colpirlo e colpirlo duramente. Quando incontreremo il nemico noi lo uccideremo. Noi non dovremo avere nessuna pietà di lui. Egli ha ucciso migliaia di vostri camerati e quindi deve morire. Se voi, comandanti di compagnia, mentre conducete i vostri uomini contro il nemico, trovate che questi vi spara contro e, quando voi arrivate a duecento metri, si vuole arrendere… Oh no! Quel bastardo (in inglese la parola "bastard" significa "figlio di .p…") dovrà morire! Voi lo ammazzerete. Colpitelo (infilzatelo) fra la terza e la quarta costola. Questo dovrete dire ai vostri uomini. Loro devono avere l’istinto dell’assassino, Dite loro di infilzarlo. Infilzarlo nel fegato. Avremo la nomea di “assassini” e gli assassini sono immortali. Quando il nemico saprà di avere di fronte un battaglione di assassini, combatterà debolmente. Noi dobbiamo crearci la fama di assassini”. Parole di Patton. Le conseguenze di tale discorso furono ovvie. Infatti, gruppi di soldati americani si abbandonarono a selvagge stragi di prigionieri di guerra italiani e tedeschi, di civili inermi e persino di carabinieri come successe nella caserma in contrada Passo di Piazza a Gela dove cinque di essi furono fucilati dopo essersi arresi. Il tutto in barba alle convenzioni internazionali peraltro sottoscritte dagli stessi americani. Un altro episodio accaduto ai soldati italiani, presi prigionieri dagli americani dopo la battaglia di Monte Castelluccio dell’11-12 luglio 1943, si riferisce al racconto di un sopravvissuto il Ten. Col. Ugo Leonardi il quale, assieme a diversi ufficiali medici con il bracciale della Croce Rossa Internazionale, fu schiaffeggiato ed umiliato. Solo alcuni di questi episodi sono stati, con molto ritardo e ad oltre sessant’anni dagli eventi, ricordati e menzionati pur con scarsissima rilevanza. L’Italia ufficiale non ha mai avuto il coraggio di dire una sola parola, non ha mai osato chieder conto, nei tribunali internazionali, di quegli assassini efferati, di quelle stragi. Al contrario continua a curvare la schiena e ringraziare perennemente gli americani che ci hanno “liberato” e portare fiori alle loro tombe. Quindi l’aver utilizzato soldati prigionieri italiani come scudi umani rappresenta un’altra pagina nera sullo sbarco Alleato del 1943 in Sicilia che si aggiunge alle precedenti e scritta ancora una volta dai comandi americani in sfregio all’etica militare e soprattutto ai dettami della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. |