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GIOVANNI RENDA

IN MEMORIA DI GIOVANNI RENDA

    Conobbi Giovanni una quindicina di anni fa in occasione di un favore che gli andai a chiedere nel suo studio: si trattava di farmi prestare una fotografia di suo padre il maestro Francesco Renda valente direttore e compositore musicale e docente del liceo musicale di Gela, per una mia pubblicazione di patrie memorie sulla banda civica. L'impressione che mi fece fu subito quella di avere a che fare con un galantuomo di stampo antico. Si forse proprio di stampo antico per i modi di trattare che aveva con le persone, per il portamento austero ma che nello stesso tempo faceva trasparire un carattere buono, rispettoso che subito ti metteva a tuo agio. 
    Ebbi notizia della sua scomparsa qualche giorno dopo la sua dipartita da una telefonata dell'amico Alfonso Parisi. Lì per lì rimasi, come si può ben capire, un pò sgomento e incredulo. Poi, più tardi a mente serena, cominciai a capire che, ancora una volta, se n'era andato per sempre un altro amico, peraltro socio dell'Archeoclub, associazione che tempo fa gli aveva demandato il compito di portare avanti una querelle con la soprintendenza di Agrigento per la restituzione a Gela di quel famoso vaso attico dell'amazzonomachia ubicato nel museo di quella città. La presenza di Giovanni in questa associazione di volontariato che è l'Archeoclub non si limitava alla semplice iscrizione. Quante volte, ricordo, i consigli che dava al direttivo per una maggiore incisività sulle varie azioni da svolgere nei confronti sia della soprintendenza che dei nostri amministratori per la tutela e la conservazione dei beni culturali. Ma tale impegno non era il solo; in realtà l'avvocato Renda si distingueva per la straordinaria partecipazione profusa nel sociale attraverso questo benemerito club service (Rotary Club di Gela), di cui è stato anche presidente, e l'altrettanto benemerita associazione locale “Amici della musica”.

    Certamente la suddetta associazione amici della musica fu quella che più ricevette le sue migliori energie perchè l'amico Giovanni in essa vedeva non solo un motivo di elevazione dello spirito ma anche un'eredità culturale lasciatagli dal padre per la nostra città. Giovanni Renda è stato anche un cultore di patrie memorie; diversi sono stati, infatti, su giornali locali ed in particolare su quello del Rotary, gli articoli riferiti alla storia ed ai beni culturali di Gela. Di uno degli ultimi articoli che produsse ci diede il piacere di pubblicarlo in un opuscolo realizzato in occasione della giornata dei beni culturali dall'Archeoclub nel dicembre scorso; tale articolo, "La distruzione di Omphake", era un estratto di un suo lavoro inedito dal titolo "Da Lindos a Gela"; lavoro, di cui non ebbi tempo di chiedergli notizie e che personalmente, con molta probabilità, reputerei interessante per la storia antica di Gela, quella proprio agli albori, che è meno conosciuta.    

    Agli inizi degli anni Ottanta, Giovanni Renda realizzò pure un lavoro originale: la traduzione in dialetto gelese del "Promèteo legato", tratto dalla famosa trilogia tragica di Eschilo, che ovviamente intitolò "Prumeteu 'ncatinatu". Questo lavoro di traduzione in gelese, che sicuramente si può considerare come espressione di letterratura dialettale, a mio modo di vedere è un contributo importantissimo al recupero della lingua popolare gelese, ma anche un esempio da annoverare nella etnolinguistica, in particolare, alle relazioni tra le strutture linguistiche e i vari tipi di cultura umana. Ma io vorrei farvi partecipe di questa mia convizione sul lavoro di Giovanni Renda, leggendo alcuni passi del suddetto "Prumeteu 'ncatinatu", in particolare quelli riferiti al Titano già incatenato che si rivolge alle Oceanine, figlie della divinità Oceano:"àma ppi diri a virità iu, all'umanità, cci detti tanti cosi: per esempiu, cci detti 'na cosa ranni: cci detti a spranza di 'na vita cchiù bbedda e n'atra cosa, ci detti 'U FOCU! e cc'o focu, l'umanità s'incivilìu l'omu sarbaggiu 'ssimigghiau a ddiu si 'mparau tant'arti, tanti misteri, si cci rapìu la menti e lu pinzeri di serbu ch'era divintau patruni, libbiru, forti e senza suggizzionià”.    

    Dopo queste considerazioni andare a pensare, quindi, che Giovanni Renda non ci sia più è motivo di profondo sconforto. Pertanto, mi voglio convincere che egli questa sera sia semplicemente assente. A volte è difficile accettare che una persona dopo tanto lavoro, dopo tanto impegno diuturno nella realtà delle cose, dopo tanti rapporti con le persone, possa sparire definitivamente.    

    Come potete ben capire stasera io non ho voluto fare un necrologio dell'amico scomparso, ho voluto solamente rendere una semplice testimonianza, come giustamente mi ha detto di dare il presidente Lizzio nell'invitarmi a questa commemorazione.    

    Sono convinto che il miglior tributo che si possa dare ad una persona scomparsa è quello che Giovanni stasera sta vivendo nelle nostre parole e nei nostri pensieri e continuerà a vivere, ed è forse la cosa più bella, domani ancora nel ricordo degli amici.    

    Desidererei concludere adesso questa mia breve testimonianza leggendo, sempre con il permesso dei gentili amici qui presenti, un piccolissimo brano del carme lirico Dei Sepolcri, forse l'opera più significativa del Foscolo, che vorrei dedicare all'amico estinto: "Ma perchè pria del tempo a sè il mortale invidierà l'illusion che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani;e spesso per lei si vive con l'amico estintoe l'estinto con noi, . . .   

    E finisco con una brevissimo passo, sempre della suddetta opera, uno dei più belli e dei più conosciuto del Foscolo: "àSol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna;"      

    E Giovanni Renda, permettetemi di dirlo, di eredità d'affetti ce ne ha lasciata molta.

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