QUOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE
Febbraio 2022
ARGOMENTI
Il Petrolchimico di Gela in una fantasmagorica scena di una cartolina illustrata
C'era una volta l'omnibus
Tre
gelesi tra i duecento siciliani delle foibe in Jugoslavia
Il Petrolchimico di Gela in una fantasmagorica scena di una cartolina illustrata
L’immagine della
cartolina, risalente agli anni ’60, scattata dal
terrazzo del cosiddetto “grattacielo”, in una
riuscita fantasmagorica composizione di luce,
colori e …particolati sospesi in
aria, ritrae quel che era l’iniziale
Petrolchimico di Gela, quando ancora vi erano le
due piccole ciminiere e le torce al centro degli
impianti. Sulla cartolina si stagliano due
vedute, in alto parte degli impianti
del petrolchimico immersi in una miriade di luci
tipo albero di Natale, in basso l’appendice di
contrada Molino a Vento con i tetti di diverse
case, il Museo Archeologico, l’Hotel Venezia del
Comm. Castellano e, nella zona buia, il Parco
delle Rimembranze.
Con una spesa
iniziale di 120 miliardi di lire, nel 1959 le
società ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione
Combustibili) e la Finanziaria Sofid (Società
Finanziaria Idrocarburi) costituirono la Società
ANIC Gela S.p.A. per la realizzazione di una
raffineria la cui posa della prima pietra
avvenne il 19 giugno 1960. La raffineria entrò
in esercizio nel 1962.
Sul retro della
cartolina, tradotta in diverse lingue perché
ancora esisteva un flusso significativo di
turismo estero, si leggono le didascalie: “Gela
- Notturno - Stabilimento Petrolchimico ANIC”;
in francese: “Vue nocturne de l’Usine
Petrolèochimique ANIC; in inglese: Night view of
ANIC Petrochemical Works; in tedesco: Nachtliche
Stimmung Petrolchemiches Werke ANIC. Sulla parte
destra sempre sul retro si leggono destinatario
e indirizzo: Al Sig. San Filippo via Calì n. 62
Catania. Ti mando i miei più cari saluti del tuo
più caro amico Angelo Cilia. La cartolina,
un’Esclusiva Ediz. Trainito - Gela - ARI-COLOR
MILANO.
C’ERA
UNA VOLTA L’OMNIBUS
Nel dopoguerra a
Gela non esisteva un servizio locale di
trasporto meccanico riservato alle persone che
si dovevano muovere da una capo all’altro della
città; supplivano a tale trasporto le carrozze
anche se non tutti potevano permettersele in
quanto tale servizio era privato e quindi a
pagamento. Il parcheggio delle carrozze allora
era ripartito in diversi punti della città, in
piazza Umberto I prospiciente il Comando dei
Vigli Urbani ubicato al pianoterra nel palazzo
dell’Albergo Trinacria, nel Corso all’altezza
della Villa comunale, in via Tevere prospiciente
la Stazione ferroviaria e all’angolo del Corso
con via Morso nei pressi della piazzetta della
palma.
Bisognò aspettare il
1952 quando, grazie all’interessamento dell’On.
Aldisio, il Comune di Gela firmò un contratto
con l’AST (Azienda Siciliana Trasporti) per
svolgere un servizio di autobus urbano che
collegasse diversi punti della città. L’AST era
un’azienda
pubblica
della
Regione Siciliana
per il trasporto interurbano che collegava i
principali centri della
Sicilia
fornendo anche un servizio di trasporto urbano
in diverse città dell'Isola così come fu per
Gela.
Inoltre, sempre nel
dopoguerra e fino agli inizi degli anni
Settanta, vi erano delle auto private che
svolgevano un libero servizio per il trasporto
di persone per Catania in andata e ritorno, e
ciò oltre alle corse interurbane istituzionali
di autobus di andata e ritorno Gela-Catania-Gela
che attraversavano Niscemi, Caltagirone e
Palagonia (c’era pure una corsa che oltre alle
città menzionate aggiungeva pure Ramacca), con
relative brevi soste, con un viaggio di circa
due ore e mezzo; gli autobus allora con autista
e bigliettaio avevano i finestrini a vetri
abbassabili e con il bagagliaio sul tetto
accessibile da una scaletta fissa sul retro.
Tale servizio era appannaggio dell’azienda SITA
(Società Italiana Trasporti Automobilistici) di
Catania, ivi con sede in via Rocca Romana, che
poi diventerà ETNA Trasporti.
Non tutti sanno che
a Gela o meglio Terranova di Sicilia, così come
in altre città d’Italia, dalla fine
dell’Ottocento e fino agli inizi degli anni
Venti del Novecento esisteva un servizio di
“Omnibus” (dal latino “per
tutti”), ovvero
delle vetture pubbliche con cocchiere di una
quindicina di posti a sedere con traino a due
cavalli, attrezzata con dei tendoni di copertura
del vano viaggiatori, e accesso situato sul
retro; il servizio era gestito da privati
cittadini ma sotto sorveglianza dell’autorità
municipale attraverso guardie urbane e
campestri. La foto qui allegata è un
fotomontaggio verosimile dell’omnibus locale.
Il servizio di
trasporto tramite omnibus era espletato con due
corse che attraversavano il corso Vittorio
Emanuele e via XX Settembre (oggi via Salvatore
Aldisio) partendo da piazza Sant’Agostino e
arrivando fino a Piano Notaro con andata e
ritorno e due fermate intermedie, quella del
Convitto Roviano-Pignatelli e l’altra del bivio
di Butera in prossimità del Cimitero
Monumentale. Gli orari delle corse variavano a
seconda delle stagioni. Le corse stabilite per
l’omnibus erano due: nella n.1, responsabile
tale Sig. Gaetano D’Aleo, il servizio partiva da
piazza Sant’Agostino, nel periodo
autunno-inverno (dal 1° ottobre al 31 marzo)
iniziando alle 7,30 per finire alle 19,30 mentre
nel periodo primavera-estate (dal 1° aprile al
30 settembre) iniziava alle 6,30 per finire alle
21,30; nella corsa n.2, responsabile tale Sig.
Pasquale Milana, il servizio partiva da Piano
Notaro con stagioni e orari identici a quella
della n.1. Gli orari di partenza come da contratto per le due corse erano indifferibili con una tolleranza massima di cinque minuti oltre l’ora stabilita.
Tre gelesi tra i duecento siciliani delle foibe in Jugoslavia
Più di 10mila
furono gli italiani che, tra il 1943 e il 1947,
furono torturati o assassinati nelle foibe e nei
campi di concentramento dalle milizie iugoslave
del dittatore Josip Broz,
conosciuto meglio come Tito;
tremila di essi, ad
esempio, furono gettati nella foiba di Basovizza.
La riconquista titina fu anche causa della fuga
di 200-350mila italiani che esuli, furono
costretti a lasciare le loro case e, secondo
alcuni studiosi, in seguito ad una pulizia
etnica che durò fino al 1956.
Dopo la firma
dell'armistizio dell’8 settembre 1943 con cui
l’Italia firmò la resa incondizionata agli
Alleati, in Istria e in Dalmazia i partigiani
jugoslavi di Tito procedettero ad una
sistematica vendetta contro i fascisti che per
vent’anni avevano amministrato con durezza in
Jugoslavia, reprimendo e costringendo tra
l’altro ad un'italianizzazione forzata le
popolazioni slave locali.
Tito
e i suoi uomini, fedelissimi di Mosca,
s’impadronirono di Fiume e di tutta l'Istria
interna, dando inizio a feroci esecuzioni contro
gli italiani e se non riuscirono ad arrivare al
porto e alle fabbriche di Trieste lo si dovette
all’intervento degli Alleati, in particolare
alla
Divisione Neozelandese del Gen. Freyberg.
Le uccisioni degli
italiani in Jugoslavia avvennero in maniera
estremamente crudele con i condannati che erano
legati l'un l'altro con un lungo filo di ferro
stretto ai polsi e alle caviglie e disposti sui
cigli delle foibe, in modo tale che quando i
primi erano colpiti dalle raffiche di mitra dei
titini, precipitando si tiravano appresso anche
gli altri del gruppo; così morti o feriti nella
caduta trascinavano sul fondo della voragine gli
altri sfortunati condannati ancora vivi. I primi
a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri,
poliziotti e guardie di finanza, seguiti da
prigionieri italiani, militari e civili.
Da un’indagine del
Centro Studi Adriatici, raccolta in un albo
pubblicato nel 1989, a meno di altre variazioni
numeriche, le vittime italiane in Jugoslavia
furono 10.137 di cui 994 infoibate, 326
accertate ma non recuperate dalle profondità
carsiche, 5.643 vittime presunte sulla base di
segnalazioni locali o altre fonti, 3.174 morte
nei campi di concentramento jugoslavi. La
cosiddetta impropriamente "caccia al fascista",
si esercitò non solo sui fascisti ma anche e
perfino con maggiore precisione, nei confronti
di antifascisti, dei componenti dei Comitati di
Liberazione Nazionale di Trieste e di Gorizia, e
degli esponenti della Resistenza
liberaldemocratica e del movimento autonomistico
di Fiume.
Negli anni compresi
tra il 1943 e il 1945, secondo alcune stime, tra
le migliaia di vittime in Juogoslavia vi furono
pure più di duecento militari siciliani, morti
per l’italianità della Venezia Giulia, Istria e
Dalmazia. Diverse furono le città di provenienza
di questi siciliani e tra esse si annoverano
Agrigento, Caltagirone, Caltanissetta, Catania,
Enna, Giarre, Messina, Modica, Mussomeli,
Palermo, Pietraperzia, Ragusa, Sambuca di
Sicilia, San Cataldo, Scicli, Siracusa, ecc.
Anche Gela è compresa tra queste città
siciliane. Lo scrivente, infatti, fino ad oggi è
riuscito a individuare tre nominativi di gelesi
che si trovarono in quel periodo funesto in
Jugoslavia.
Il primo dei tre
gelesi era il carabiniere Corfù Paolo, classe
1921. Milite aggregato al 2° Reggimento di
Fanteria del Regio Esercito Italiano si trovava
nel presidio del piccolo borgo di Pedena
nell’Istria orientale, comandato allora dal
sottotenente Angelo Finucci. I 22 carabinieri
della caserma, attaccati nella prima decade di
giugno del 1944 da forze soverchianti di
partigiani titini, furono costretti ad
arrendersi; dopo la loro cattura furono
rinchiusi in un edificio scolastico da dove,
dopo alcuni giorni di detenzione, il 12 giugno
furono prelevati a piccoli gruppi e portati
fuori da quel piccolo centro in una delle tante
caverne della zona dove furono uccisi per
infoibamento.
Il secondo gelese
era il militare Mauro Emanuele di Giovanni, nato
a Terranova di Sicilia nel 1923. Arrestato a
Monfalcone l’8 maggio 1945 e deportato
nell'ospedale militare del Seminario Minore a
Gorizia; questo secondo nominativo è presente
nella lista dei “Ritornati” di oltre 1.000
deportati e infoibati di Gorizia, quindi si
presume che abbia salvato la propria pelle.
L’ultimo dei tre
gelesi, anch’esso militare, era Fasulo Salvatore
di Luigi, nato a Terranova di Sicilia il 2 marzo
1906, arrestato a Trieste il 30 aprile 1945 e
tradotto in un campo di internamento nella
piccola isola dell’Adriatico di Susak e lì
probabilmente soppresso dai titini il 31
dicembre 1945.
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