QUOTIDIANO
DISTRETTO GELESE
DA TERRANOVA A GELA, STORIA DI DUE RIVOLTE
Tra i tanti avvenimenti che hanno
contraddistinto la storia recente di Gela ne
abbiamo scelto due particolarmente drammatici;
si tratta di due rivolte popolari contro
l’istituzione, distanti tra loro 64 anni, che
hanno lo scopo di riflettere particolari
condizioni sociali ed economiche della
popolazione locale. Si scrive di due
avvenimenti, uno del 1919 e l’altro del 1983,
che oggi nella più completa insipienza sono
stati relegati nell’oblio.
La rivolta del mese di ottobre del 1919
Il primo avvenimento, che risale al 1919,
ha come riferimento tre soggetti: un’industria
cotonifera la
SICIM
(acronimo di
Società
per l’Incremento
della
Cotonicultura
nell’Italia Meridionale), il ceto contadino
di Terranova di Sicilia e la coltura del cotone
nell’Isola, pertanto, è necessario introdurre
brevemente il lettore nel contesto produttivo di
questa fibra tessile.
Introdotto nell’Isola dagli arabi nel XII
secolo, dopo una lunga fase di prosperità, il
cotone subì un durissimo contraccolpo all’inizio
del XVII secolo con l’ingresso in Europa della
produzione asiatica, cui si aggiunse, nel secolo
successivo, quella nordamericana. Il periodo
migliore di produzione del cotone in Italia
coincise con la guerra di secessione americana
(1861-1865), quando il tracollo improvviso delle
esportazioni d’oltreoceano costrinse le
industrie manifatturiere inglesi a cercare in
Europa fonti alternative di approvvigionamento.
La fine della guerra civile americana e
la ripresa dell’esportazione dagli Stati Uniti
ridimensionarono la produzione italiana di
questa fibra tessile.
Ma vediamo che cosa accadde a Terranova
nella prima decade d’ottobre del 1919. C’era una
questione aperta tra la SICIM e Casa Pignatelli
da una parte e dall’altra il bracciantato
agricolo locale relativamente al patto di
mezzadria sia per la coltura del cotone sia per
le terre in genere incolte, patto che era
considerato ostile dai contadini i quali invece
volevano che si applicasse la piccola
affittanza, in quanto molti di essi si trovavano
disoccupati, in particolare quelli tornati dal
servizio militare dopo aver contribuito nel
lontano Nord-Est alla causa dell’Unità d’Italia.
Intanto, la SICIM intendeva realizzare la
coltivazione del cotone su larga scala nelle
pianure di Terranova e di Catania utilizzando
quello egiziano.
Nei primi giorni di ottobre del 1919,
preceduto da uno stato di agitazione di diverse
settimane, il bracciantato agricolo terranovese
proclamò uno sciopero con il blocco di tutte le
strade di accesso alla campagna. La forza
pubblica che “fu
per i padroni” disperse gli scioperanti “a
suon di legnate”, arrestandone molti oltre
ai promotori. Il giorno dopo, grazie
all’intervento del Consiglio dell’Unione
Agricola e di Ulisse Carbone, allora segretario
della Confederazione Italiana dei Lavoratori,
tutti gli arrestati furono rimessi in libertà,
salutati in Piazza Umberto I da un’enorme folla.
Durante lo sciopero le campagne rimasero
deserte, addirittura anche gli stessi operai
dello stabilimento di sgranellatura del cotone
della SICIM incrociarono le braccia. Il
pomeriggio di giovedì 9 ottobre un carretto
carico di cotone stava transitando per le vie
della città, quando fu attorniato dagli
scioperanti che intimarono al conducente di
ritornare a casa. Nonostante la decisione del
proprietario del carro di ascoltare il desiderio
dei dimostranti, la forza pubblica che
presidiava la città con a capo di un maresciallo
dei Carabinieri intervenne pesantemente usando
violenza contro gli scioperanti i quali, di
corsa, si avviarono verso il Municipio per
denunciare tale violenza alla Commissione
esecutiva dei contadini. La forza pubblica di
stanza davanti al Municipio, però, forse
impaurita dalla concitazione della massa degli
scioperanti, sparò sulla folla senza l’ordine
del Commissario, nonostante che lo stesso si
trovasse in mezzo ai contadini. Gli scioperanti
si dispersero subito nelle strade adiacenti a
via Giacomo Navarra Bresmes. Rimasero a terra
due morti e sei feriti gravi. Subito dopo le
Forze dell’Ordine, temendo la reazione della
folla, si barricarono nel Municipio. Dopo aver
dato aiuto ai feriti e trasferiti i due morti,
migliaia di manifestanti ritornarono nelle loro
case per armarsi e ritornare al Municipio per
dare battaglia alle Forze dell’Ordine. Ma, un
provvidenziale acquazzone li fece desistere da
tale proposito. L’indomani molti negozi rimasero
chiusi esibendo la scritta di “Lutto cittadino”.
Subito dopo, a favore delle famiglie delle
vittime, fu iniziata una sottoscrizione cui
contadini e operai contribuirono largamente.
Anche da Catania arrivò una sottoscrizione di
2.000 per i familiari delle vittime.
Nella piana di Terranova, dopo i tumulti
popolari del 9 ottobre le masse contadine
egemonizzate dal deputato popolare Salvatore
Aldisio, invasero le vastissime proprietà dei
principi Aragona Pignatelli, in parte concesse
in gabella alla SICIM e in parte appena cedute
all’Opera Nazionale Combattenti. Se per queste
ultime si trattava soltanto di accelerare le
pratiche per la quotizzazione, per la SICIM
saltava praticamente tutto il piano di
riconversione colturale già programmato. Il
ripristino indiscriminato della cerealicoltura
costituì, comunque, per i destini del cotone
siciliano, un fattore altrettanto importante
quanto l’occupazione delle terre. Dopo aver
preso possesso dei terreni, i contadini si erano
limitati a seminare il frumento, motivando con
la prolungata siccità il rifiuto di rispettare
gli obblighi contrattuali per la prevista
coltivazione del cotone, e causando alla società
un danno notevole.
L’intreccio di questi molteplici fattori
fece concludere anzitempo e in maniera del tutto
fallimentare, l’esperimento della cotonicoltura
in Sicilia. Alla fine del 1927 la SICIM fu messa
ufficialmente in liquidazione.
Ma come finì a Terranova dopo i tumulti
di ottobre? Finita l’ispezione nelle campagne di
Terranova della Commissione governativa,
l’ispettore ministeriale dalla terrazza del
Municipio arringò la folla assicurandola che
avrebbe fatto emanare una serie di provvedimenti
atti a risolvere equamente la vertenza. Inoltre,
per evitare un grave danno economico alla città,
convinse i contadini a riprendere il lavoro nei
campi anche perché vi era cotone per centinaia e
centinaia migliaia di lire in gran parte di
proprietà degli stessi contadini scioperanti, e
che ritardandone ancora il raccolto, sarebbe
andato irrimediabilmente perduto. In questo
modo, la grave agitazione di Terranova terminò e
circa 5.000 contadini ripresero il lavoro.
La rivolta del mese di novembre del 1983
Il riepilogo dei fatti riguardanti la
rivolta e la relativa devastazione del Municipio
di Gela del 21 novembre del 1983 sono stati
articolati sulla base di diversi servizi di
giornali, qui elencati tra parentesi), oltre
alla presenza in quel giorno dello scrivente che
scattò diverse fotografie. (Giorgio de
Cristoforo, Tony Zermo e Elio Cultraro de
La
Sicilia di Catania; Anselmo Calaciura,
Antonio La China, Maria Pino e Rocco Cerro de il
Giornale
di Sicilia di Palermo; Valentino Alfieri de
L’Ora
di Palermo; Antonio Calabrò del settimanale
Panorama;
Lucio Galluzzo de
Il
Messaggero di Roma; Amedeo Lanucara de
La Stampa
di Torino; Andrea Marcenaro del settimanale
L’Europeo;
servizio senza firma de
la
Repubblica).
Con una spesa iniziale di 120 miliardi di lire,
nel 1959 le società ANIC (Azienda Nazionale
Idrogenazione Combustibili) e la Finanziaria
Sofid (Società Finanziaria Idrocarburi)
costituirono la Società ANIC Gela S.p.A. per la
realizzazione di una raffineria; il complesso,
entrato in esercizio nel 1962, subì nel corso
degli anni diverse variazioni sia societarie che
strutturali e produttive.
Il polo chimico (inaugurato il 10 marzo
del 1965), nel 1974, tra diretto e indotto,
raggiunse il più alto indice di occupazione con
7.500 lavoratori. Da allora col passare degli
anni e con la crisi crescente della Chimica,
iniziò una flessione occupazionale progressiva
che nell’arco di quasi tre decenni ridurrà della
metà tale indice occupazionale. Finiva così il
sogno per Gela di diventare il nuovo Texas
siciliano; lo stabilimento dell’ANIC (acronimo
di Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili)
rimase una cattedrale nel deserto, simbolo di
quella industrializzazione senza sviluppo
descritta dai sociologi Hitten e Marchioni, già
all’inizio degli anni Settanta.
Eravamo sul finire del 1983, al Comune vi
era una giunta formata dalla Democrazia
Cristiana e dal PLI con l'appoggio esterno del
PSI, PSDI e PRI. A capo della Giunta vi era il
democristiano avv. Giacomo Ventura che era stato
eletto sindaco il 12 settembre dello stesso
anno.
Anticipata da manifesti e documenti per
sollecitare lo sblocco dell’attività edilizia,
per le 9 del mattino del 21 novembre, con
concentramento nella piazza antistante all’Hotel
Sileno, fu organizzata da quattro imprese locali
una manifestazione di protesta con la
partecipazione di muratori e manovali
disoccupati del settore edilizio, di chimici in
cassa integrazione, di commercianti, di
artigiani, di camionisti senza noli e di
proprietari di alloggi abusivi che chiedevano
una certificazione di edificabilità; l’attività
edilizia era entrata in crisi con le restrizioni
imposte dalle autorità comunali per fermare il
continuo crescere e dilagare dell’abusivismo
edilizio. In quella giornata piovigginosa, Il
corteo di alcune migliaia di persone, al seguito
di motoapi, camion, autobetoniere, ruspe,
autogrù e pale meccaniche, si diresse verso il
centro, ingrossato anche dalla partecipazione
degli studenti delle superiori, confluendo verso
via Giacomo Navarra Bresmes e quindi in piazza
S. Francesco prospiciente il Municipio. Nella
piazza e nei pressi dell’ingresso secondario del
Municipio c’era il grosso dei manifestanti i cui
esagitati, sempre più minacciosi e con urla e
invettive, pressavano sul portone d’ingresso
dove a guardia c’erano poche decine tra
carabinieri e poliziotti oltre ad uno sparuto
numero di vigili urbani. Il sindaco Ventura,
intanto, attendeva al secondo piano di ricevere
una delegazione di scioperanti per sentire le
loro proteste. Alla manifestazione mancavano i
sindacati di categoria e i rappresentanti
politici dei partiti, un’assenza questa
particolarmente strana che la dice lunga, come
si vedrà in seguito, sul carattere della stessa
manifestazione.
L’Amministrazione comunale, nel disporre
le ordinanze di sospensione dei lavori, dei
sequestri e delle apposizioni dei sigilli,
coraggiosamente aveva ritenuto di farla finita
con un sistema che aveva relegato la città e i
suoi abitanti a vivere in condizioni molto
precarie. L’obiettivo ultimo era quello di dare
un minimo ordine alla situazione generale di
Gela, con il rilascio in tempi brevi delle
licenze edilizie in sanatoria, grazie alle quali
si sarebbero potuto completare le costruzioni
abusive in massima parte lasciate allo stato
grezzo. Ma, evidentemente tale programma della
Giunta Ventura era in antitesi a interessi ben
precisi. Così scesero in campo i sobillatori
che, facendo leva sul malcontento della gente
rimasta senza lavoro, organizzarono quanto stava
per succedere, mascherando una vera e propria
sommossa in una pacifica manifestazione di
protesta. I promotori della sommossa erano
quelli che per anni traevano i maggiori benefici
economici dell’attività edilizia abusiva e il
suo blocco, deciso dall’amministrazione
comunale, era vista da essi come una seria
minaccia ai loro lauti guadagni. Ma la maggior
colpa di quella situazione era dovuta alla
pochezza della classe politica gelese e di
quegli amministratori locali succedutisi nei
vent’anni precedenti alla guida del Comune che
non seppero, o non vollero dolosamente anche per
interessi personali, dare alla città adeguati
strumenti urbanistici.
Le Forze dell’Ordine, sino all’arrivo del
corteo al Municipio erano riuscite a controllare
la situazione anche se alcuni esagitati avevano
ingaggiato una colluttazione con alcuni
poliziotti, due di questi ultimi poi finiti
all’ospedale assieme a uno scioperante. Verso le
11,45, però, i partecipanti più facinorosi del
corteo dopo una sassaiola e dopo avere
danneggiato diversi automezzi, ebbero ben presto
ragione della forza pubblica riuscendo a
sfondare il cordone delle Forze dell’Ordine
parato davanti al Municipio introducendosi,
quindi, all’interno dello stesso sia dal portone
d’ingresso sia dalle attigue finestre, seguiti
dalla massa degli scioperanti. Vi fu un
parapiglia generale e un fuggi fuggi da parte
degli impiegati che si erano impauriti dalla
massa degli scioperanti che urlava e iniziava a
entrare negli uffici sfasciando la qualsiasi. I
facinorosi che in precedenza sapevano già dove
dovevano dirigersi, dopo aver distrutto vetrate,
divelto porte e abbattuto ringhiere si portarono
al primo piano entrando prima nell’Aula Magna,
dove iniziarono una sistematica distruzione
delle suppellettili molte delle quali
scaraventate dalle vetrate delle finestre sulla
strada, e successivamente nell’aula B dove erano
conservati diverse migliaia di progetti
presentati dai cittadini per ottenere la
sanatoria delle loro costruzioni abusive,
demolendo anche lì scaffalature e gettando dalle
finestre armadi, scrivanie, macchine da
scrivere, scaffali e carpette con documenti
nelle sottostanti piazza S. Francesco e via
Giacomo Navarra Bresmes, dove tutto il cartaceo
fu dato alle fiamme. Ci fu anche un principio
d’incendio all’interno del Municipio,
fortunatamente estintosi senza altre
conseguenze.
I rivoltosi dopo aver iniziato l’opera di
devastazione del Municipio si diressero nelle
stanza del segretario comunale con non buone
intenzioni ma l’intervento di alcuni agenti e
del Commissario di P.S. fece evitare il peggio
anche se gli stessi riportarono diverse
contusioni. I più facinorosi, ancora non
soddisfatti di quanto accaduto, si portarono
nella stanza del sindaco Ventura e dopo averlo
letteralmente sequestrato lo portarono fuori dal
Municipio verso Piazza Umberto I, seguiti da
tutti i manifestanti, dove tenne un estemporaneo
discorso per cercare di rabbonire l’animo dei
più esagitati. Lo stesso primo cittadino, sempre
per volontà dei rivoltosi, scortato dalle Forze
dell’ordine fu fatto rientrare al Municipio per
un “confronto” con una delegazione degli
scioperanti. Per tutta la durata dell’incontro,
il Municipio rimase sotto assedio degli
scioperanti che attendevano di conoscerne
l’esito ma anche per avere notizia sulla la
sorte di alcune persone precedentemente fermate
da Polizia e Carabinieri e condotte al
commissariato.
La manifestazione si sciolse intorno alle
19,00 dopo un ultimo incontro dei dimostranti
col Sindaco e dopo l’arrivo di rinforzi delle
Forze dell’Ordine da Catania, da Caltanissetta e
da altri capoluoghi di provincia. Il Comune per
i danni subiti, oltre un miliardo di lire, fu
dichiarato per qualche giorno inagibile, mentre
il Pretore aprì un’inchiesta giudiziaria sui
fatti accaduti. Nella stessa serata nella sede
della P.S. di Gela si tenne un improvvisato
vertice tra il Colonnello dei Carabinieri,
funzionari della Questura, dirigenti di Polizia
e Carabinieri e della Magistratura.
Nel luglio del 1984, a sette mesi dalla
rivolta, con un blitz notturno le Forze
dell’Ordine arrestarono 45 persone (a cui alcuni
mesi prima
erano arrivate comunicazioni giudiziarie)
su ordine di cattura emesso dal giudice
istruttore presso il Tribunale di Caltanissetta
con l’imputazione di invasione,
devastazione, saccheggio di pubblico edificio,
incendio doloso aggravato, blocco stradale,
violenza e lesione nei confronti delle Forze
dell’Ordine e ancora di violenza, sequestro di
persona e estorsione nei confronti del sindaco
di Gela. Agli arresti si resero latitanti sette
persone che risultavano tra gli organizzatori
della rivolta.
A uno degli arrestati, nell’ottobre dello
stesso anno, gli fu contestato pure
l’imputazione di istigazione all’omicidio. Nel
gennaio del 1985 si dispose il rinvio a giudizio
degli imputati che nel dicembre dello stesso
anno, però, al di là di qualche lieve condanna,
furono quasi tutti assolti per insufficienza di
prove e per non avere commesso il fatto. Si
sgonfiò così in Tribunale la vicenda delle
devastazioni nel Municipio di Gela in cui,
secondo i giudici, non ci furono organizzatori.
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