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La Sicilia
DISTRETTO GELESE

Luglio 2022
ARGOMENTI

Cartolina di oggi: Chiesa e Piazza Carmine

Gela, la sesta denominazione in 2.700 anni

"Pella notturna illuminazione"

 

CHIESA E PIAZZA CARMINE


    La cartolina del 1913 propone una veduta di piazza Carmine, oggi piazza Roma, ancora a fondo naturale con la chiesa cinquecentesca omonima (già dell’Annunziata) e, immediatamente vicino, un milite davanti l’ingresso della Caserma dei Reali Carabinieri, caserma che già dal 1866 aveva occupato i locali del convento e il cortile dei PP. Carmelitani. In corrispondenza del tetto della chiesa s’intravvede la cupoletta di stile arabo della torre campanaria, quest’ultima demolita nella seconda metà degli anni Cinquanta e poi ricostruita ex novo per altre due volte, prima a cuspide e poi di nuovo con cupoletta (sic); a sinistra s’intravvede anche la parte terminale della torre campanaria della vicina chiesa del Rosario. Sulla facciata principale della chiesa del Carmine, oltre ad un elegante portale in stile settecentesco che ne adorna l'ingresso, esiste una lapide, che copre la luce della finestra, sulla quale è scolpita la seguente scritta rimata “in mare irato in subita procella invoco te nostra benigna stella” che fa capire l’antica frequenza dei marinai di Gela di questa chiesa.

    Sulla parte est della piazza verso gli anni Trenta, su progetto dell’Arch. Di Bartolo fu costruita una pescheria, una costruzione in ferro battuto con tettoia e modanature in stile liberty, con all’interno venti banchi di vendita; alla stessa, poi diroccata, seguìrono un’altra più moderna progettata nel 1954 con una spesa di 6.710.780 di lire e un mercato al coperto su progetto dell’Ufficio Tecnico del Comune di Gela del 1959 con un importo di 36.500.000 di lire, appaltato da Giovanni Catania. La piazza recentemente è ritornata alla superficie originaria dopo la demolizione di dette strutture e in particolare dopo la presa di posizione del comitato di quartiere sul progetto “Una via e tre piazze” che prevedeva sulla sua superficie la realizzazione di una struttura invasiva e soprattutto aliena anche dal contesto urbano dello stesso quartiere.

    Nella chiesa del Carmine si conservano diverse importanti opere d’arte in particolare un Crocifisso di cartapesta dipinta in nero ebano risalente al secolo XV, ritenuto miracoloso dalla popolazione, posto in un tabernacolo settecentesco di legno con pregevole cornice dorata artisticamente lavorata; un olio di una pala lignea della Crocifissione con la Vergine e San Giovanni del 1616 di pittore ignoto; un’acquasantiera marmorea di pregevole fattura del 1571, forse di Scuola Gaginiana, costituita da un pilastro di diverse sezioni e da una vasca sul bordo della quale, oltre ad una placca centrale raffigurante lo stemma dei carmelitani, si trova la seguente scritta: “in tempore prioratus fratris angeli de leone e modica, fundatoris conventus MDLXXI”; una statua del secolo XVIII di quercia massiccia della Madonna del Carmine, oggi in fase di restauro grazie ad un finanziamento dell’associazione gelese “Convegno di Cultura Maria Cristina di Savoia”; tre pale dipinte del XVII-XVIII secolo, quelle dei Santi Carmelitani, del Martirio di San Lorenzo e dell’Annunciazione; sulle pareti laterali dell’abside vi sono due dipinti di Giovanni Iudice del 2009, uno raffigurante “Il serpente di bronzo” e l’altro la Crocifissione. Inoltre, sulla parte nord della navata, vicino l’ingresso laterale alla chiesa, sono affissi una dozzina di dipinti risalenti ai primi decenni del Novecento, ognuno con delle scritte votive e con la raffigurazione di navi mercantili nel mare in tempesta, dipinti commissionati da padroni di bastimenti come ex voto; infine, sulla cantoria esiste un piccolo organo a canne del 1917 della ditta organara nissena Damiano Polizzi & Figli.

    Nella chiesa esistono diverse cripte, venute alla luce nel 2006 durante il rifacimento del pavimento, con il ritrovamento di un’enorme quantità di resti ossei; le cripte rimaste, solo due, che ancora oggi si possono osservare, si trovano al centro della navata con una di esse che arriva fin sotto l’altare maggiore.

 

Gela, la sesta denominazione in 2.700 anni

    Gela e una delle città che più hanno cambiato denominazione nel corso della storia. Il fenomeno è significativo e s’intreccia con la storia e con la leggenda, vale la pena darne un resoconto.

    Nei suoi 2700 anni di storia la nostra città ha cambiato denominazione per ben cinque volte, cioè in media ogni 550 anni, prima dl riacquistare nel suo sesto e finora ultimo cambiamento il nome antico di Gela. Partiamo dal lontano 688 a.C., anno in cui nel nostro lido sbarcarono nuclei di colonizzatori provenienti da due isole del Peloponneso, Rodi e Creta, capeggiati rispettivamente da Antìfemo e Entìmo. Si ha notizia che quei coloni fondarono una cittadella, probabilmente nelle immediate vicinanze del Fiume Gela com'è lecito supporre, a cui diedero il nome di Líndioi, a ricordo di Lindo, città originaria del gruppo di colonizzatori rodiesi. Tale denominazione, però, doveva durare solo per alcuni decenni. E infatti, in relazione ad un accentramento di gente sparsa nelle campagne circostanti, la città s’ingrandì, probabilmente cambiando la sua denominazione. Il nuovo nome fu quello di Gela ed esso, per molti autori di storia patria, derivò dal fiume omonimo che scorre tuttora poco distante dalla nostra città, fiume così denominato dai Siculi. Per quanto invece riguarda la sua etimologia diverse sono state le ipotesi che hanno cercato di spiegare la derivazione originaria; dal cartaginese “bela” che significa vortice fiume vorticoso; dall'ebraico “galal” che si può intendere anche col significato di flutto; dall'antico linguaggio siculo “gela” col significato di ghiaccio cioè fiume che produce gelo o anche brina; dal verbo greco ghelao col significato di ridere.

    Verso la metà del VII secolo a.C. comparve, dunque, la denominazione di Gela, che durò di sicuro fino al periodo in cui essa fu totalmente distrutta nel 282. a.C. dai Mamertini, mercenari italici al servizio del Tiranno siracusano Agatocle, mentre i suoi abitanti furono condotti dal Tiranno di Agrigento Finzia alla foce del Fiume Imera, l’odierno Salso, dove fondò la città di Finziade, l’attuale Licata; di tale trasferimento alcuni autori antichi, ma anche qualcuno coevo, hanno speculato sull’ubicazione della Gela greca ponendola a torto nel territorio di Licata.

    Scomparsa la città di Gela e trasferiti i suoi abitanti, la collina su cui essa sorgeva rimase deserta, anche se nella campagna circostante dovettero esistere nuclei di popolazione dediti all’agricoltura. La denominazione di Gela, riferita allora alla zona in cui essa era sorta, durò ancora per altri sei secoli, fino al 603 d.C. anno in cui Papa Gregorio Magno in un’epistola ne cita il nome, “massa quae dicitur Gelas”, come di un vasto possedimento del patrimonio ecclesiastico di allora. Da quell’anno in poi non si sa più nulla e dunque, certamente, il periodo più buio della storia di Gela inizia proprio da allora.

    Non si sa a partire da quando, ma certamente da epoca remota, la città assunse anche la denominazione di Heraclea, derivante dalla leggenda che attribuì al mitico eroe Ercole l’edificazione di una città sulla nostra collina. Sicuramente, però, la denominazione di Heraclea, sorta per l'antica leggenda, incominciò dal 1233, anno in cui venne fondato da Federico II di Svevia un insediamento urbano fortificato sul lato est della collina. La denominazione di Heraclea ancora oggi si riscontra scritta nei registri di alcune parrocchie locali.

    Verso la metà del 1500, la città per evitare danni e vittime provocati dalle continue scorrerie piratesche che imperversavano sulle coste del Mar mediterraneo, divise la sua superficie in due parti tramite un muro mediano allo scopo di difendere meglio i suoi abitanti, questi ultimi quindi trasferitisi nella zona murata ad est della collina e a cui fu data la denominazione di Terranova, in opposizione all’altra parte di città abbandonata ad ovest e con diverse brecce nelle mura di cinta che prese il nome di Terravecchia; per un certo periodo di tempo la denominazione di Terranova coesistette con quella medievale di Heraclea.

    Dopo l’unificazione d’Italia nel 1861, il 12 settembre dell’anno dopo la civica Amministrazione comunale terranovese, in ottemperanza ad una circolare della locale Sottoprefettura, aggiungeva a Terranova la specificazione “di Sicilia”, quindi la città venne a chiamarsi Terranova di Sicilia, e ciò per differenziarla da altre città italiane di eguale denominazione. Di tale deliberazione si trova traccia in un registro d’epoca del “Decurionato di Terranova di Sicilia. Registro delle deliberazioni dal 1860 al 1863 - delib. n. 193, pag. 337. Oggetto: Nuova denominazione della città”.

    Siamo arrivati così alla quinta denominazione quella di Terranova di Sicilia, dopo Lindioi, Gela, Heraclea e Terranova. Ma non doveva essere l’ultima. Infatti, nell’agosto del 1927 in pieno regime fascista, su istanza del Podestà Dott. Antonio Vacirca Aldisio, si propose ancora di cambiare la denominazione della città, recuperando l’antico nome di Gela a ricordo della gloriosa e importante città dell’antichità classica. E ciò in un registro che riporta la “Delibera n. 480 del 6 Agosto 1927. Oggetto. Cambiamento della denominazione della Città di Terranova con quella di Gela”.

    Due mesi dopo sul n. 290 della Gazzetta Ufficiale del Regno, del 6 dicembre 1927, comparve il decreto reale, n. 2273, di autorizzazione al Comune a mutare la propria denominazione in quella di Gela.

    Lindioi, Gela, Heraclea, Terranova, Terranova di Sicilia ed infine di nuovo Gela. Non è incoerente chiedersi se sarà veramente l'ultima denominazione…

    Un post scriptum doveroso: l’attribuzione di Città a Gela è impropria dal momento che ufficialmente risulta ancora come Comune. La richiesta di passaggio di Gela da Comune a Città è stata inoltrata diversi anni fa dall’allora Presidente del Consiglio Comunale Dott.ssa Alessandra Ascia, tramite la Prefettura di Caltanissetta, al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Del risultato di quella richiesta fino ad oggi non è dato sapere.

 

“PELLA NOTTURNA ILLUMINAZIONE”

    Quando si parla della Luna ci si riferisce spesso ai voli spaziali oppure alle maree che esso provoca sul mare. Ma certamente non si va subito col pensiero all'importante funzione che questo satellite naturale svolgeva fino alla metà del secolo scorso, quella di illuminare le notti, le vie di una città e la campagna. A Gela prima dell’introduzione dell’illuminazione elettrica, nelle notti di luna piena i fanali cittadini non venivano accesi, poiché si sfruttava spesso questa illuminazione gratuita e naturale con risparmio di soldi.

    Ma vediamo nei dettagli come veniva regolato da parte dell'Amministrazione comunale dell’epoca il pubblico servizio “pella notturna illuminazione” leggendo quel che si trova di una delibera del 1824 contenuta in un registro decurionale malridotto per la vetustà del locale archivio comunale, che così recita: “Terranova lì 30 Novembre 1824. Atto Decurionale n. 45, oggetto: Condizioni d’appalto pella notturna illuminazione”. “Si è riunito il Decurionato di Comune Capo Distretto nella sala destinata dal Sig. Sindaco in straordinaria seduta ad invito del Sig. Sindaco con autorizzazione superiore sono intervenuti li Signori…”.

    “Il Decurionato alla unanimità à deliberato e delibera le seguenti condizioni: Che in questo Comune Capo Distretto Terranova l'appaltatore de' fanali dovrà accendere li numero trenta fanali per giorni diciotto in ogni mese, escluse le serate della luna in giorni dodici. 2. Per la mercede, a prezzo d’olio in onze novanta annuali. 3. Sarà all’aggiudicatario anticipata la somma cioè nel primo anno d’onze trenta, e nel secondo di onze ventiquattro, ed il restante di terzo pospostamente. 4. Che deve mantenere, e consegnare detti fanali puliti, e bene acconciati, a misura di come se li riceverà...”.  “…10. Ogni mattina è obbligato il liberatorio di girarli tutti per pulizzarli con spugne e cannovacci, per non soffrire il pubblico di venir sporcato dall’olio. 11. La durata del lume dev’essere da circa ore dodici, giusta lo sperimento fattosi dall’autorità...”.

    Non è conosciuto il periodo in cui comparvero nella nostra città i primi fanali per la pubblica illuminazione, ma di sicuro si sa che essi inizialmente erano ad olio, ed in genere veniva usato quello di oliva. In tale liquido era immerso uno stoppino, quasi sempre di fibra tessile, alla cui estremità libera ardeva l’olio assorbito per capillarità.  

    Verso la seconda metà del 1800, l’olio per illuminazione fu sostituito con il petrolio e, pertanto, anche nell'illuminazione pubblica della nostra città fu utilizzato tale combustibile. Intanto nel 1883 a Milano fu installata la prima centrale elettrica Italiana e in seguito a ciò si ha notizia che già dal 1891 in poi le amministrazioni comunali terranovesi avevano iniziato ad interessarsi all’installazione di un impianto per la produzione dl energia elettrica pubblica. Ma, per raggiungere tale importante traguardo, dovevano ancora passare ben 17 anni. Infatti, il 14 maggio del 1908, durante l’amministrazione del Sindaco Giacomo Navarra Bresmes, fu inaugurata la tanto agognata illuminazione elettrica della città con gruppi elettrogeni a corrente continua. Gli impianti furono installati vicino l’arenile in un apposito edificio denominato “Officina Elettrica”, costruito intorno al 1906 da una impresa locale di costruzione di tale Rosario Iacono, mentre l’impianto del gruppo elettrogeno e la posa della rete elettrica di distribuzione pubblica furono progettati nel 1905 dallo “Studio Industriale Elettrotecnico” di Vittoria dell`lng. Rocco Federico e messi in opera qualche anno dopo.

    All’inaugurazione dell’illuminazione elettrica a Gela nel 1908 era presente il Premio Nobel Salvatore Quasimodo, aveva allora 7 anni, che rilasciò al compianto giornalista Gino Alabiso (1920-2018) un’intervista di cui si riporta il seguente stralcio: “…Ero in piazza Matrice e c’era la banda musicale che aspettava quell’attimo memorabile. Quando i due carboncini provocarono i primi bagliori e la città fu inondata di una bianca luce, quelli che stavano accanto a me scoppiarono in un grido di giubilo. E la banda cittadina suonò un ritmo allora in voga e tutti cantammo una specie di can-can…”.

    Nella sala macchine dell’Officina Elettrica furono collocati tre gruppi elettrogeni composti ognuno da un motore a scoppio “Loughen Wolf”, di tipo a gas povero, alimentato da un gassogeno a carbone antracitico di 75 cavalli e una dinamo “Lahamajer” che forniva 56 KW a corrente continua con 170 A e 280 V; gli stessi motori, inoltre, erano collegati con un impianto di raffreddamento ad acqua salmastra prelevata da un pozzo scavato nell’antistante spiaggia. La distribuzione della corrente elettrica nella città avveniva mediante diverse linee indipendenti che erano dirette in particolare all'utenza privata ed a quella pubblica.

    L’illuminazione della città, gestita dall’azienda comunale appositamente istituita, era prodotta da 53 lampade ad arco voltaico e da più di mille ad incandescenza; in particolare le prime erano dislocate, alla distanza media di 35 m. l'una dall’altra, lungo il Corso Vittorio Emanuele; in particolare in numero di 25, a partire dall’incrocio con via Porta Vittoria fino all'altro con via Cappuccini; poi in via Marina (oggi via Giacomo Navarra Bresmes) in numero di 8, in piazza Umberto I in numero di 6 e nella villa pubblica Garibaldi in numero di 14.

    La luce molto intensa ottenuta da queste lampade ad elettrodi, veniva prodotta dall’arco luminoso creatosi al passaggio della corrente elettrica tra i due bastoncini di carbone, in genere misto ad ossidi alcalini per aumentarne la luminosità, all'interno di un globo di vetro opalino. Gli elettrodi di ognuna di tali lampade avevano una durata di alcune decine di ore e, pertanto, la loro sostituzione doveva avvenire in modo abbastanza frequente in quanto l'anodo e il catodo si andavano consumando per sublimazione e combustione con l'ossigeno dell’aria. La sostituzione degli elettrodi consumati nelle lampade, che suscitava sempre molta curiosità tra i passanti, era effettuata dal personale del Comune dopo che lo stesso, tramite un verricello, faceva scendere il globo di vetro ad altezza d’uomo.

    Di regola tutte le lampade ad arco venivano spente a mezzanotte ed in loro sostituzione, in particolare lungo il Corso, venivano accese quelle ad incandescenza che si trovavano nei fanali sui bordi dei marciapiedi, fanali che tempo prima illuminavano a petrolio. Ma non erano solamente le suddette lampade ad essere spente a mezzanotte; infatti, a quell'ora, veniva anche spento il 50% delle altre lampade che illuminavano il resto della città, mentre il rimanente restava acceso fino alle prime luci dell’alba; queste ultime lampade, che erano dette infatti “a tutta notte”, erano ubicate dentro i cortili ed in corrispondenza degli incroci.

    L’erogazione della corrente elettrica iniziava all’avemmaria e si sospendeva alle prime luci dell'alba, con una durata massima di 10 ore. Man mano che la città si espandeva, ed aumentava il numero delle utenze, la potenza in KW erogata dai gruppi elettrogeni dell’Officina Elettrica non riusciva più ad esaudire la richiesta per cui nel 1928, Podestà Dott. Antonio Vacirca, si decise di installare un quarto gruppo elettrogeno con la scelta di un motore “Franco Tosi” diesel, tipo G. 4, di 160 cavalli ed una dinamo “Marelli” di 112 KW che produceva corrente continua a 280V e a 400 A. In quello stesso anno, ma forse ancora prima, furono anche eliminate tutte le lampade ad arco voltaico e sostituite con altre ad incandescenza da 1000 W, che vennero montate nelle stesse armature metalliche dei globi di vetro opalino; la maggior parte di esse si trovava lungo il corso e verso mezzanotte erano spente in modo alternato.

    Verso gli inizi degli anni Trenta, però, uno dei tre motori originari, da tempo privo della necessaria manutenzione, si fermò definitivamente, mentre il “Franco Tosi” ultimo acquistato, cominciò a dare delle noie, tant'è che intorno al 1935, durante l`amministrazione comunale presieduta dal podestà Comm. Dott. Vincenzo Gueli, fu deciso l`acquisto di un quinto gruppo elettrogeno. Si optò per il “Deutsche Werk-CGE” diesel, assemblato in Italia dalla Compagnia Generale di Elettricità, con una potenza di 420 cavalli e con una dinamo di 300 Kw che forniva corrente continua a 280 V e 1.078 A. In relazione a questa installazione fu anche potenziato il sistema di raffreddamento dei motori con lo scavo di un secondo pozzo d’acqua nell’arenile, realizzato dall’impresa locale di Catania Filippo, nelle immediate vicinanze del primo.

    Nel 1935, l'illuminazione pubblica della nostra città era assicurata, ma non sempre in modo uniforme, in tutti i suoi quartieri da 1.166 lampade di diversa intensità luminosa, dalle 25 alle 300 candele, mentre l’erogazíone della corrente avveniva ancora per un massimo di 10 ore. Con queste modalità si continuò fino al 1948 anno in cui subentrò alla gestione dell'azienda elettrica comunale la SGES (Società Elettrica Generale Siciliana, fondata nel 1903 con ls denominazione di Società Catanese di Elettricità. Questa società installò subito un sesto gruppo elettrogeno di 1000 KW a corrente alternata e potenziò anche la rete di distribuzione cittadina in previsione di un aumento della durata dell'erogazione della corrente elettrica. E infatti, agli inizi degli anni Cinquanta, grazie al completamento di alcuni elettrodotti a corrente alternata ad alta tensione che arrivarono fino al nostro territorio, l’erogazione dell’elettricità fu allargata in tutto l’arco della 24 ore. Da questo periodo in poi i gruppi elettrogeni dell’Officina Elettrica non vennero più messi in funzione, tranne in qualche sporadico caso come ad esempio nel 1954 durante la festa dell’incoronazione della Patrona di Gela, Maria SS. d’Alemanna, quando il sovraccarico delle luminarie richiese un ulteriore contributo di corrente elettrica.

    Nel 1962 intanto, su tutto il territorio nazionale operò l’ENEL (Ente Nazionale Elettricità o per l’Energia Elettrica) con legge 6 dicembre dello stesso anno, che nazionalizzò l’industria elettrica disponendo il trasferimento all’Ente delle imprese esercenti. Qualche anno prima, nel 1961, a Gela il voltaggio della corrente elettrica alternata fu portato dai 160 V ai 220 V attuali.

    Negli anni Sessanta e forse anche prima, i motori e le dinamo dell'Officina Elettrica, da anni non più in funzione, vennero completamente smantellati con tutto il materiale rottamato come ferro vecchio. Al contrario di molte altre città che ne hanno ricavato un museo.

 

 

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