QUOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE
Giugno 2023
ARGOMENTI
Il Distretto Gelese di oggi è monotematico,
infatti tratta dello Sbarco Alleato in Sicilia e
della Battaglia di Gela.
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10 Luglio 1943
Lo Sbarco Americano e
la Battaglia di Gela
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Alle prime luci
dell’alba del 10 luglio 1943 gli Alleati
(principalmente americani, inglesi e canadesi)
con un’imponente azione offensiva, denominata
“Operazione Husky”, iniziarono l’attacco della
“Fortezza Europa” con la Campagna di Sicilia
che, oltre ad essere l’inizio della liberazione
d’Italia (definita come “ventre molle
dell’Asse”), fu anche l’inizio del crollo del
regime fascista prima e di quello nazista dopo.
Prima dello sbarco
Alleato del 10 luglio 1943, iniziato nei golfi
di Gela (con i primi americani sbarcati alle ore
3 in contrada “Senia Ferriata”, a sud del Lago
Biviere) e Noto, il comando militare del Regio
Esercito Italiano alle ore 1,55 e alle 2,50 fece
saltare in aria rispettivamente un deposito di
munizioni vicino l’ex Ospizio Marino e la
piazzetta centrale del pontile sbarcatoio di
Gela, pensando a torto che quest’ultima
struttura resa inservibile avrebbe potuto
ritardare lo sbarco delle truppe Alleate le
quali, si comprese subito dopo, non ebbero
nessun impedimento da tale inutile demolizione.
La brutta esperienza della disfatta di Dunkerque
con conseguente caduta della Francia (subita tra
il 26 maggio ed il 4 giugno del 1940 dai
francesi e britannici tra loro alleati) convinse
infatti la Royal Navy della necessità di
progettare delle navi di grandi dimensioni
capaci sia di navigare in mare aperto, sia nello
stesso tempo di effettuare operazioni di sbarco
direttamente sulla spiaggia; così, tra l’altro,
a partire dal 1941 furono ideate le LST (Landing
Ship Tank) e le LCT (Landing Craft Tank), con
pescaggio ridotto e la prua quadrata con
portelloni a cardini di oltre quattro metri, che
nel 1943 furono utilizzate per portare uomini e
mezzi direttamente sulle spiagge della Sicilia e
della Penisola e su quelle della Normandia nel
giugno del 1944, senza minimamente servirsi di
pontili e di porti contrariamente a quanto
allora si sarebbe potuto pensare.
I due
contrattacchi della Battaglia di Gela contro gli
Americani
Come già detto
sopra, uno dei settori prescelto per lo sbarco
Alleato sulla Sicilia sud-occidentale fu quello
del Golfo di Gela, con un’estensione di circa 40
Km., da “Punta Due Rocche” del Licatese a “Punta
Braccetto” del Ragusano. Durante lo sbarco tale
settore fu subito considerato strategicamente
importante per la difesa italiana in quanto era
separato fisicamente dalla Piana di Catania dal
diaframma collinare del Calatino che era
facilmente superabile e che avrebbe dato la
possibilità alle Forze americane di arrivare
sulla Piana di Catania così da congiungersi a
quelle inglesi e canadesi. Nonostante
l’importanza che assunse il settore di Gela nel
contrastare militarmente un eventuale sbarco
nemico, cosa già a conoscenza delle alte sfere
militari italiane, nulla o quasi fu fatto per
migliorarne la difesa, stessa cosa accadde per
gli altri settori. Infatti, le fasi primarie
dello sbarco anglo-americano in Sicilia, se si
toglie la zona di Gela, furono nella quasi
totalità dei casi scarsamente contrastate dalle
truppe italiane e tedesche che si trovarono
impreparate e con numero di mezzi insufficienti.
Gli americani della
1a Divisione di Fanteria, la colonna
“Dime”
del Gen. Terry Allen composta da sette
battaglioni con reparti d'appoggio e da due
battaglioni di Rangers, dopo la neutralizzazione
delle batterie costiere sbarcarono tra “Punta
Due Rocche” e “Punta Zafaglione”, con
l’obiettivo primario di occupare Gela e
l’aeroporto di “Ponte Olivo”, quest’ultimo
strategicamente importante perché da lì tra
l’altro partivano gli aerei per bombardare
l’isola di Malta di stanza degli inglesi.
Avuta notizia dello
sbarco nella zona di Gela, il comando delle
truppe italiane con sede a Enna nella stessa
giornata dispose un contrattacco avvalendosi
delle unità del gruppo mobile “E”
(con carri armati Renault R35 al comando del
Cap. Giuseppe Granieri),
della 155a Comp. Bersaglieri (al
comando del Ten. Franco Girasoli), di un
battaglione della Divisione Fanteria “Livorno” e
della divisione panzer “H. Goering”.
L’esito non ebbe i risultati sperati, poiché
l’azione dei tre contingenti oltre a non essere
stata simultanea fu penalizzata dalle cattive
comunicazioni radio, così il contrattacco
italo-tedesco fu respinto; durante tale
contrattacco, però, nonostante
il
diluvio di fuoco che arrivava dal mare,
cinque carri armati Renault R35, della 1a
Compagnia del CI Battaglione, affiancati dalla
155a Compagnia Bersaglieri, alle ore
8,10 riuscirono ad entrare nell’abitato di Gela
ingaggiando un duro combattimento con i rangers
americani del Ten. Col. William Darby. Dei
cinque carri Renault R35 solo due entrarono in
città; uno fu colpito e completamente distrutto
dai cannoni anticarro americani in contrada
Carrubbazza sulla via Generale Cascino; il
secondo carro armato, attraversando il quartiere
Porta Caltagirone (secondo alcune testimonianze
transitò sul Corso, proveniente da via Porta
Vittoria), riuscì transitando sulla via Giacomo
Navarra Bresmes ad arrivare in piazza Umberto I
nel cuore del centro storico; fu quello condotto
dal Ten. Angiolino Navari del 141° Rgt. Carristi
il quale, dopo che il suo carro armato fu
colpito da un bazooka ai cingoli, per evitare di
morire nell’incendio che avvolse lo stesso carro
uscì dalla torretta ma fu bersagliato e ucciso
dai tiri incrociati degli americani; una lapide,
posta sul palazzo prospiciente via Matrice, ne
ricorda l’azione eroica mentre per tale gesto al
Navari fu concessa la Medaglia d’Argento al
Valor Militare alla memoria.
L’indomani dello
sbarco gli americani dopo aver conquistata Gela
subirono, però, una seconda controffensiva delle
truppe dell’Asse. La divisione italiana di
Fanteria “Livorno”, al comando del Gen. Domenico
Chirieleison, la divisione tedesca di panzer
“Hermann Goring”,
al comando del Generalmajor Paul Conrath, e quel
che rimase dei carri armati del Gruppo Mobile
“E” e della 155a Compagnia
Bersaglieri, diedero del filo da torcere agli
invasori al punto tale quasi da ricacciarli in
mare (“…seppellire
l’equipaggiamento sulle spiagge e fare i
preparativi per reimbarcarsi”. Firmato Patton),
ma non riuscirono in tale intento sia perché non
ebbero il promesso rimpiazzo dal Comando
italiano con nuove truppe e munizioni, sia per
l’arrivo di mezzi corazzati americani di
rinforzo da Licata e da Scoglitti.
L'appoggio aereo
tattico, il fuoco dei mortai e, in particolare,
l’azione della marina e dell’aviazione
anglo-americane salvarono le sorti di quella
prima fase della battaglia di Sicilia. che
infuriò sulla Piana di Gela e sulle colline che
la circondano, e dove la Regia Marina Italiana
fu totalmente assente
e completamente inattiva
restando ancorata nei porti di La Spezia,
Taranto e a La
Maddalena nonostante che fosse una squadra
navale moderna ed efficiente che peraltro a
partire dal 1940 disponeva di 6 corazzate, 31
incrociatori, 43 cacciatorpediniere, circa 60
torpediniere e oltre 100 sommergibili; anche la
Regia
Aeronautica Italiana, al di là della presenza di
aerei bombardieri trimotori Cant
Z, fu quasi assente e comunque con un armamento
obsoleto, senza o comunque con pochi
aerosiluranti e già logora dei mezzi e del
materiale a causa delle precedenti guerre
d’Etiopia e di Spagna. Nell’aeroporto di
Ponte Olivo della Regia Aeronautica Militare
Italiana, comandante il Ten. Col. Aldo
Remondino,
aveva sede il 51° Stormo di aerei da
caccia Macchi c.202 comandato dal Maggiore
Duilio Fanali; diversi furono i piloti che erano
di stanza nell’aeroporto gelese e che si
distinsero in importanti azioni come
Il
Maresciallo Pilota Ennio Tarantola, denominato
“Banana”, il Cap. Pilota Furio Niclot
Doglio, il Cap. Carlo Miani,
il Maresciallo Pasquale Bartolucci ed altri.
La piazzaforte di Augusta, la meglio armata di
tutta la Sicilia, che sulla carta doveva
rappresentare un baluardo insormontabile per
l’invasore, nonostante la presenza di sei
batterie costiere di grosso e medio calibro, con
pezzi da 381, 254 e 152 mm, diciassette batterie
contraeree e due pontoni armati, si arrese
miseramente senza sparare un colpo e peraltro fu
abbandonata precipitosamente anche dalla milizia
marittima di artiglieria, la
MILMART.
Gli scontri della
Battaglia di Gela terminarono nella prima
mattinata del 12 luglio con la ritirata degli
italo-tedeschi e con la cattura da parte degli
americani di alcune migliaia di militari. Gela
così fu la prima città d’Europa ad essere
liberata. Da qui e da altre zone dell’Isola
prese inizio la grande offensiva che doveva
portare gli Alleati alla conquista integrale
della Sicilia, base per le decisive battaglie
che seguirono con le conseguenze a tutti note.
La conquista della
Sicilia da parte degli Alleati fu completata in
38 giorni, dal 10 luglio al 17 agosto del 1943,
con l’occupazione di Messina e la ritirata delle
truppe italo-tedesche in Calabria; ritirata che
paradossalmente fu possibile grazie
alla competizione per la
conquista della Sicilia tra Patton e Montgomery
e che portò al risultato di far evacuare quasi
indisturbate le forze dell’Asse dalla Sicilia
con mezzi e uomini quasi al completo. E ciò, in
particolare dopo l’armistizio dell’8 settembre,
rappresentò una grave iattura in quanto
l’esercito tedesco, successivamente diventato
nemico, si attestò vicino Cassino con la linea
Gustav dando filo da torcere agli Alleati e
rallentando la loro avanzata in Italia. |
CONSIDERAZIONI
Niente ali di folla ad
applaudire Una considerazione relativa ad un fatto che nobilitò certamente gli abitanti di Gela di allora è quella che dalla presa dell’abitato degli americani e fino alla loro smobilitazione, non vi furono mai ali di folla applaudenti gli occupanti contrariamente a quanto avvenne in quasi tutta l’Isola. E forse non poteva essere diversamente dal momento che la stessa popolazione gelese, oltre a vedere molti compaesani morire, si rese conto anche degli atti eroici e del sacrificio della vita dei soldati italiani nella difesa della Patria.
Campi minati e cartelli viari
Si ha notizia che durante lo
Sbarco Alleato sulle spiagge
prospicienti il centro storico
di Gela, in particolare ai lati
del pontile sbarcatoio,
l’Esercito Italiano fece
disporre delle mine con relativi
cartelli di avviso; la
situazione paradossale fu quella
che in concomitanza dello stesso
Sbarco tali cartelli non furono
tolti o perché nella
concitazione derivata
dall’imminente invasione fu
dimenticato oppure perché
qualcuno che aveva il compito di
toglierli li lasciò volutamente. Un’altra situazione anomala che si racconta, accaduta durante la notte prima dello Sbarco, è quella che nelle vie principali del centro storico di Gela comparvero dei cartelli direzionali con scritte in inglese; che l’abbiano impiantati gli stessi americani o meno non si è mai saputo con certezza.
Tra stragi e stupri
Molti autori hanno scritto sullo
sbarco degli Alleati nell’Isola
e sulle varie fasi della
Campagna di Sicilia, conclusasi
con l’occupazione di Messina,
però, pochi di essi hanno
trattato gli aspetti negativi
che hanno contraddistinto le
Forze occupanti, aspetti che per
diversi decenni non sono stati
approfonditi a dovere. Ci
riferiamo non solo alle ruberie
che
molti americani
perpetrarono a danno dei
proprietari delle case
temporaneamente requisite, al
coinvolgimento della mafia
(recenti documentazioni ne
dimostrano l’infondatezza se non
dopo lo stesso sbarco), della
massoneria, del separatismo e di
personaggi delatori ma anche a
diverse stragi commesse dagli
americani nel territorio tra
Gela, Acate e Comiso a danno di
inermi prigionieri, civili e
carabinieri (Michele Ambrosiano,
Antonio Di Vetta e Donato Vece
in contrada Passo di Piazza)
subito dopo lo sbarco; secondo
una recente stima, quelle stragi
contarono circa 300 persone tra
militari e civili. E a proposito
di carabinieri si riporta qui un
fatto poco e niente conosciuto,
quello accaduto in Piazza
Umberto I a Gela, piazza che fu
teatro di una sanguinosa lotta
in cui si distinsero
egregiamente i Reali
Carabinieri, ai quali, nel
frattempo, si erano uniti alcuni
giovani gelesi contro gruppi di
rangers e paracadutisti. Lo
scontro durò due ore circa. I
carabinieri si difesero
strenuamente, ma furono
sopraffatti quando, esaurite le
munizioni, vennero circondati da
altri americani, accorsi dalla
parte della vicina Chiesa del
Rosario.
Di
quei giovani gelesi di allora,
lo scrivente ebbe occasione di
conoscerne uno, il compianto
Francesco Zafarana il quale
raccontò l’azione svolta in
quella giornata assieme ai suoi
amici a difesa dei carabinieri
circondati già dai militari
americani; “…dopo averci
procurato delle bombe a mano,
prelevate dai tascapane di
alcuni militari italiani esanimi
vicino la chiesa Madre, salimmo
sulla torre campanaria e da lì
lanciammo le bombe sugli
americani, non so con quale
esito perché immediatamente
individuati cercammo di scendere
per dileguarci ma senza
riuscirci. Infatti, fummo presi
dai soldati americani, i quali
notando la nostra giovane età ci
risparmiarono e ci portarono
nella stessa mattinata dentro
l’arena cinematografica
“Littorio”, utilizzata come
campo di concentramento, sotto
il Municipio nel quartiere Orto
Fontanelle”. Da lì, scavando il
terreno sotto la recinzione di
tavole, riuscii furtivamente ad
evadere…”.
Ed
ancora, si racconta che molte
donne a Gela, durante
l’occupazione americana, furono
coinvolte in numerosi stupri
dagli occupanti, tant’è che la
maggior parte di esse, se non
tutte, per evitare di mettere al
mondo dei figli che sarebbero
cresciuti senza padre,
procedette all’uso sistematico
dell’aborto clandestino; quindi
molti casi simili a quello
riportato nel romanzo di Moravia
“La ciociara”, da cui Vittorio
De Sica negli anni Sessanta
trasse un film con Sophia Loren
ed Eleonora Brown, stuprate
nella finzione cinematografica
da soldati Alleati.
Ritirata dei soldati italiani
per codardia o per esaurimento
di munizioni?
Spesso sui diversi libri di
storia si legge che durante lo
sbarco americano in Sicilia i
soldati italiani si arresero
vuoi per codardia vuoi per
l’esiguità o l’esaurimento delle
munizioni; falso per quanto
riguarda la codardia, vero per
quanto riguarda le munizioni.
Non risponde a verità che i
soldati italiani, in tale
occasione, pensarono soltanto a
fuggire e che soltanto quelli
tedeschi seppero tener testa
agli invasori, cose queste non
rispondenti a verità.
Esistono precise testimonianze
che attestano che le quattro
divisioni di fanteria italiane
“Livorno”, “Assietta”, “Aosta” e
“Napoli” della 6a
Armata furono sempre presenti
sul campo di battaglia ed
operarono in modo da rendere
possibili notevoli movimenti
tattici. Infatti, ad esempio
durante lo sbarco, numerosi e
pregnanti furono gli atti di
eroismo dei militari italiani
nella battaglia di Gela, in
particolare quelli del 33° e 34°
Rgt. Fanteria della Divisione
“Livorno”, i quali, anche se per
breve tempo, riuscirono a
rallentare l’avanzata
dell’imponente 7a
armata americana; di essi si
ricordano il filattierese
Caporal maggiore Cesare
Pellegrini, Medaglia di Bronzo
al Valor Militare alla memoria,
che trovò gloriosa morte nel
fortino di Porta Marina, il
fortemarmino S. Ten. Carrista
Angiolino Navari, Medaglia
d’Argento al Valor Militare alla
memoria, che col suo carro
armato, nei pressi di Piazza
Umberto I, riuscì a impegnare
una compagnia di soldati
americani, il Mag. Enrico
Artigiani (Medaglia d’Argento al
Valor Militare alla memoria), il
Col. Mario Mona (Medaglia d’Oro
al Valor Militare alla memoria)
e tante altre migliaia tra
ufficiali e soldati che con il
sacrificio della loro vita
difesero il patrio suolo
italiano e non il fascismo come
falsamente e ignorantemente
“alcuni” vorrebbero far credere.
Soldati italiani in Sicilia
utilizzati come “scudi umani”
In
merito alla resa di interi
reparti italiani che
combatterono in Sicilia, essa
probabilmente fu dovuta anche ad
un altro motivo. Lo scrivente,
in merito ad una ricerca
nell’Archivio Storico Militare
di Roma in via Etruria, è nelle
condizioni di dimostrare che
sicuramente un caso di resa di
un reparto italiano, avvenuto
nella prima giornata dello
sbarco Alleato a Gela, fu dovuto
al fatto che gli americani in
un’azione di guerra avanzarono
dietro una moltitudine di
prigionieri italiani, questi
ultimi dunque utilizzati come
“scudi umani”, tant’è che i
nostri soldati allora non
poterono far altro che
arrendersi anziché sparare sui
loro commilitoni.
Piace
qui riportare un passo della
“Relazione cronologica degli
avvenimenti” riscontrabile nel
suddetto archivio storico
militare romano: “…Ore
9,20: il Col. Giuseppe Altini
comunica che la 49a
btr. si è arresa perché il
nemico veniva avanti facendosi
coprire dai nostri soldati presi
prigionieri…”.
Una comunicazione di tre righe
su una pagina ingiallita dal
tempo, a firma del Gen. Orazio
Mariscalco comandante della
XVIII Brigata Costiera, rimasta
incredibilmente sconosciuta per
oltre settant’anni all’interno
di un faldone, che mette in luce
per la prima volta in assoluto
un caso così clamoroso.
Certamente questo espediente,
senza dubbio vincente, nulla
vieta a far pensare che allora
sia stato utilizzato sicuramente
dai comandi americani non solo a
Gela ma anche in altre occasioni
come recentemente accertato da
altre testimonianze in possesso
dello scrivente.
Un
altro episodio accaduto ai
soldati italiani, presi
prigionieri dagli americani dopo
la battaglia di Monte
Castelluccio dell’11-12 luglio
1943, si riferisce al racconto
del Ten. Col. Ugo Leonardi il
quale, assieme a diversi
ufficiali medici con il
bracciale della Croce Rossa
Internazionale, fu
schiaffeggiato ed umiliato. Solo
alcuni di questi episodi sono
stati, con molto ritardo e a
oltre settant’anni dagli eventi,
ricordati e menzionati se pur
con scarsissima rilevanza.
L’aver utilizzato soldati
prigionieri italiani come scudi
umani, quindi, rappresenta
un’altra pagina nera dello
sbarco Alleato del 1943 in
Sicilia, pagina nera che si
aggiunge alle precedenti,
scritta ancora una volta dai
comandi americani in sfregio
all’etica militare e soprattutto
ai dettami della Convenzione di
Ginevra sui prigionieri di
guerra.
Dopo
la pubblicazione di quanto
scoperto dallo scrivente
riguardo gli “scudi umani”,
prima sul quotidiano “la
Repubblica” edizione di Palermo
del 23 luglio 2011 e poi sulla
pagina regionale de “La Sicilia”
del 12 luglio 2013, è
interessante riportare qui il
testo di una e-mail da Palermo
del Sig. Pietro Mirabile,
inviata in data 30 dicembre 2014
allo scrivente, che così recita:
“Buonasera, Signor Mulè, le dico
subito che non ci conosciamo, il
motivo di questa mia è
nell’oggetto. Mi spiego
meglio!?! Due giorni fa il 28 di
Dicembre mio padre avrebbe
compiuto 102 anni (è morto nel
2007) così oltre a qualche
preghiera per la sua anima ho
cercato nella rete notizie sullo
sbarco in Sicilia. Tutte le
volte che mio padre ne parlava
gli spuntavano le lacrime per la
rabbia ed il disprezzo che
provava per gli invasori.
Mio
padre ha fatto la guerra da
richiamato ed era sergente
maggiore del 18° Comando Brigata
Artiglieria Costiera, il 10
Luglio del ‘43 si trovava tra
Palma di Montechiaro e Licata,
raccontava che nella primavera
di quell’anno c’erano stati
avvicendamenti nella linea di
comando degli Ufficiali
superiori, e raccontava sempre
che tutta la batteria aveva
ricevuto l’ordine di non
togliere le cappotte ai cannoni
quella notte. Preso prigioniero
lo hanno usato come scudo umano
fino quasi a Leonforte dove
c’erano le retrovie tedesche.
Leggendo quello che Voi avete
pubblicato ho costatato la
verità del suo racconto e non
aveva esagerato, infatti a Gela
le cose sono andate peggio. Mi
auguro di non averLa disturbata
con questa mia testimonianza
(indiretta di 71 anni fa), Le
auguro un sereno e proficuo
2015…”.
Da
Palermo Pietro Mirabile”.
Non
ci sono elementi tali da non
credere appieno a quanto scritto
dal Sig. Mirabile sul racconto
del padre, quest’ultimo
testimone di un sistematico
atteggiamento delle truppe
americane nell’utilizzare i
prigionieri italiani come scudi
umani per avanzare più
facilmente all’interno
dell’Isola. E ciò accadde per
circa 100 Km., dall’Agrigentino
fino alla cittadina dell’Ennese,
passando anche per diversi paesi
del Nisseno, Caltanissetta
compresa.
Quanti giorni impiegarono gli
americani per arrivare a
Palermo? Dall’11 al 22 luglio
sono 11 gg. Quanti giorni
impiegarono gli inglesi per
arrivare a Catania? Dall’11
luglio al 6 agosto sono 26 gg.;
lo scrivente, pertanto, si
convince sempre di più che ci
sono tutti gli elementi per
poter riflettere sull’uso
sistematico di allora nell’aver
utilizzato i prigionieri
italiani come “scudi umani”
nell’avanzata americana in
Sicilia.
Perdite italo-tedesche
nell’Operazione Husky
Le
perdite italo-tedesche nelle
prime fasi dello sbarco furono
enormi; da Gela fino a Regalbuto,
tra morti e dispersi negli
11.440 componenti della
Divisione “Livorno” vi furono
214 ufficiali e 7.000 tra
sottufficiali e militari di
truppa, mentre della divisione
corazzata “H. Goering” caddero
30 ufficiali e 600 sottufficiali
e militari di truppa degli 8.739
effettivi. Così il totale dei
soldati dell’Asse tra morti e
dispersi in Sicilia fu di circa
50.000 unità (in stragrande
maggioranza italiani), mentre
quello dei soldati Alleati
deceduti nell’operazione Husky
fu intorno alle 5.000 unità,
con 9.000 feriti e 3.300
prigionieri.
Oggi, dopo ottant’anni, una cosa
rimane certa: l’Italia si trovò
coinvolta, per colpa del
fascismo e della monarchia, in
una guerra in cui gli italiani
in tempi diversi si ritrovarono
grottescamente a combattere (e
morire) contro gli
Anglo-Americani prima, contro
gli ex alleati Tedeschi dopo e
persino tra loro durante il
nefasto periodo della Repubblica
Sociale.
Da
alcuni decenni, diversi sono gli
studiosi che stanno facendo luce
su determinati aspetti
dell’invasione Alleata in
Sicilia e tra questi i Proff.
Rosario Mangiameli e Ezio
Costanzo che convenientemente
con studi e pubblicazioni danno
un notevole contributo alla
divulgazione e alla conoscenza
di tale importante avvenimento
della storia d’Italia e della
Sicilia in particolare.
La
difesa della Sicilia fu
un’impresa quasi impossibile,
non come più volte affermato per
la sproporzione tra le truppe
alleate e quelle italo-tedesche,
ma per la superiorità degli
Alleati nel dominio del cielo e
del mare; peraltro, vincente fu
il fatto che le navi Alleate
possedevano dei cannoni a lunga
gittata che potevano arrivare a
diverse decine di Km. di
distanza e ciò gli permise in
modo indisturbato di produrre
una serie infinita di tiri di
interdizione che tra il 10 e il
12 luglio nella Piana di Gela
decimarono le Divisioni
“Livorno” e “H. Goering”, in
particolare nella giornata del
secondo contrattacco; tiri
iniziati a sparare, dalle ore
8,30 e ininterrottamente
terminati alle ore 13, dagli
incrociatori Savannah e Boise e
da ben cinque cacciatorpediniere
(Glennon, Jefferson, Laub, Cowie
e Butler).
Bombardamenti in molte città
dell’Isola, tranne Gela
In
aggiunta a quanto scritto prima,
esiste un altro aspetto degno di
attenzione su cui da tempo lo
scrivente cerca di azzardare
delle spiegazioni. Mi riferisco
alla città di Gela la quale,
nonostante sia stata scelta nel
luglio del 1943 come punto
principale di sbarco della 7a
armata americana, non fu mai
bombardata né prima, né durante
lo stesso sbarco (al di là di
qualche bomba d’aereo sganciata
incidentalmente), al contrario
di altre città dell’Isola che in
seguito a tali azioni subirono
morti, feriti e distruzioni.
Vero è che a Gela,
precedentemente allo sbarco,
esisteva già un nucleo di
intellligent anglo-americana,
però, tale presenza, che non era
solo a Gela, sicuramente non
l’avrebbe esclusa da un
eventuale bombardamento. In
merito al supposto caso di
spionaggio dell’ammiraglio
gelese Francesco Maugeri (lo
stesso che ebbe il compito di
trasferire Mussolini, dopo il
suo arresto, all’Isola de La
Maddalena in Sardegna), anche
questo degno di essere
analizzato, ci riserviamo di
scriverne in altro contesto.
Pertanto, se bombardamento a Gela non ci fu, a parere dello scrivente lo si deve al comando alleato il quale, molto probabilmente, agì in rapporto ad un patto realizzato in precedenza anche con politici siciliani tra cui quasi sicuramente Salvatore Aldisio, peraltro, a quanto sembra, discendente da famiglia massonica di Gela; non per niente lo stesso Aldisio, dopo la presa dell’Isola, nel 1944 ebbe la carica di Prefetto di Caltanissetta, di Ministro dell’Interno nel secondo Governo Badoglio e poi di Alto Commissario per la Sicilia. E non fu il solo, anche molti mafiosi per il loro “contributo” dato agli americani, furono “premiati” con posti di responsabilità, addirittura alcuni di essi ebbero la carica di primo cittadino.
L’uso della camicia nera per
lutto
Un’ultima considerazione si
riferisce ad un fatto che
coinvolse allora un buon numero
di gelesi, arrestati dagli
americani perché creduti
fascisti in quanto trovati con
indosso una camicia nera e
quindi con il rischio di essere
fatti prigionieri o addirittura
fucilati. E se scamparono a tale
pericolo fu grazie
all’intercessione di due
conterranei (Nicola ed Emanuele
Mulè) che, in quanto conoscitori
della lingua inglese per lunga
navigazione, spiegarono agli
americani l’uso della camicia
nera in seguito ad un lutto
familiare e quindi facendoli
desistere dal loro comportamento
a danno dei suddetti gelesi.
Dal libro del Col. Dante Ugo
Leonardi
Chiudiamo questo articolo con il
ripotare un brano tratto dal
libro “Luglio 1943 in Sicilia”
del Col.
Dante Ugo Leonardi del 1947,
comandante del
34° Reggimento Fanteria della
Divisione “Livorno”,
dal titolo “Il terzo
contrattacco notturno degli
Americani. L’accerchiamento e la
fine” che così recita:
“…L’inevitabile si compiva. Dopo
circa due ore, su Monte
Castelluccio si scatenò un
uragano di fuoco da parte delle
artiglierie navali. Fu di breve
durata, ma compensato dal numero
considerevole delle bocche da
fuoco che agivano
contemporaneamente.”
“Lo
schianto delle granate faceva
tremare la terra. Il ritmo degli
scoppi rassomigliava a quello di
una battaglia di tamburi. Monte
Castelluccio bruciava. Schegge e
sassi fendevano rabbiosamente
l’aria. Le spesse mura del
castello crollavano sotto la
violenza dei grossi calibri.”
“Cessato il fuoco
dell’artiglieria, le fanterie
americane attaccarono. Dapprima
l’azione fu soltanto frontale.
Poi si estese gradualmente ai
fianchi, e successivamente anche
alle spalle. Così, all’alba del
memorabile 12 Luglio 1943 ci
trovò già accerchiati da forze e
mezzi schiaccianti.”
“Tenemmo
testa per diverse ore, dando la
possibilità agli altri reparti
della Divisione “Livorno” di
organizzarsi a difesa sulle
nuove posizioni retrostanti. Tra
bersaglieri della 155a
Compagnia e fanti del 3°
Battaglione, fu una nobile gara
di eroismo. Man mano che il
cerchio si stringeva, la lotta
diveniva sempre più accanita.
Attorno a noi, era una pioggia
di fuoco proveniente da tutte le
parti!”
“Finché vi furono munizioni,
lottammo. Non avevano più alcuna
speranza, tuttavia nessuno
tentennò. Il tenente Girasoli
Franco, salito più volte in
piedi su un muricciolo,
sprezzante del pericolo,
incitava i suoi valorosi
bersaglieri a far fuoco. Ferito,
precipitava, ma poco dopo
tornava a combattere. Il tenente
Sampietro Aldo, che il giorno
precedente si era comportato da
valoroso, ora accorreva da un
punto all’altro delle postazioni
delle sue armi incitando
disperatamente gli uomini a far
fuoco. Finite le bombe, rendeva
inservibili i mortai e
continuava a combattere col
moschetto. Il tenente La Torre
Giuseppe, esaurite le munizioni
dei cannoni, rendeva anch’egli
inservibili i pezzi e continuava
con le armi individuali”.
“I
comandanti di reparto, ad uno ad
uno, comunicavano intanto che
“le munizioni erano finite e che
si stavano utilizzando quelle
dei morti e dei feriti”. Il
Caporal maggiore Spallanzani
Libero di Rubiera (Reggio
Emilia), terminate le cartucce e
le bombe a mano, impugnava una
pistola americana catturata
durante il combattimento del
giorno precedente, e si
slanciava verso il nemico nel
temerario intento di arrestarlo
da solo…”.
“Il
quadro della lotta era divenuto,
dunque, terribilmente disperato!
Munizioni esaurite… perdite
molto gravi… accerchiamento
ridotto gradualmente ad uno
spazio ristrettissimo… fuoco da
tutte le parti! Di fronte a noi,
il nemico era già a pochi passi
di distanza. I fianchi era stati
avvolti. Alle spalle. Esso
trovavasi ad una cinquantina di
metri soltanto. Sparammo gli
ultimi colpi che ci rimanevano…
lanciammo le ultime bombe a
mano… poi fummo sopraffatti e
sommersi da una valanga umana
proveniente da ogni parte”.
“Erano circa le ore 7 del 12
Luglio: avevamo combattuto 24
ore quasi continuamente!”.
Il
Col. Leonardi nel dopoguerra
ritornò a Gela per visitare i
luoghi di Monte Castelluccio e
per l’occasione lasciò
un’epigrafe il cui testo fu
impresso su una lapide
antistante il fortilizio dello
stesso Castelluccio che così
recita:
“…SU
MONTE CASTELLUCCIO
HO INNALZATO UN MONUMENTO
AI MIEI MORTI
AI PIEDI DI ESSO
HO POSTO UNA LAMPADA VOTIVA
SEMPRE ACCESA CHE IO SOLO VEDO
COME IO SOLO VEDO IL MONUMENTO
QUESTA LAMPADA E’ IL MIO CUORE
IO NON POTRO’ MAI SPEGNERLA
FINCHE’ SARO’ IN VITA
PERCHE’ IO SOLTANTO SO QUANTO
GRANDE E QUANTO GLORIOSO
SIA STATO IL LORO SACRIFICIO…”
DANTE UGO LEONARDI
AI CADUTI
NEL QUARANTESIMO ANNIVERSARIO
DELLA BATTAGLIA DI GELA
LA CITTA’ MEMORE POSE 1983 |