QUOTIDIANO
La Sicilia DISTRETTO GELESE Gennaio 2021 ARGOMENTI MONUMENTO A RE UMBERTO I RICORDO DI ATTILIO GUGLIELMINO, IL FOTOGRAFO DI GELA LA CARTOLINA DI OGGI
Si può
comprendere,
anche se in
misura ridotta,
che nel
dopoguerra gli
amministratori
gelesi su
indicazione
della Prefettura
di
Caltanissetta,
abbiano divelto
nel 1953 il
monumento alle
medaglie d'oro
Guccione e
Casciana che era
stato realizzato
durante il
regime ed
ubicato sul
marciapiede di
via Giacomo
Navarra Bresmes,
ad una decina di
metri dal
Municipio, di
fronte via Pisa.
Era in atto
allora la
defascistizzazione
e quindi
bisognava dare
un esempio del
nuovo corso
repubblicano,
anche se il meno
indicato e in
ritardo di otto
anni dalla fine
della guerra. E
ciò perchè nel
monumento vi
erano due fasci
littori che si
sarebbero potuti
togliere
lasciando il
resto, ma si
preferì “buttar
via l'acqua
sporca con il
bambino dentro”.
Però, non si
capisce che cosa
c'entrassero
questi due eroi
terranovesi del
monumento con il
fascismo, dal
momento che il
Guccione
(decorato di
medaglia d’oro)
immolò
eroicamente la
propria vita
durante la Prima
Guerra Mondiale,
mentre il
Casciana
paradossalmente
perse la vita a
Trieste nel 1921
per difendere un
gruppo di
persone
propriamente
dall’azione
degli squadristi
del nascente
regime. E’
scontato che
allora per
questione di
propaganda si
poteva fare
questo ed altro.
Adesso,
riferendoci alla
cartolina di
oggi, ritorniamo
indietro al 1953
quando
l’Amministrazione
comunale
stoltamente si
rese
responsabile
to court del
trasferìmento
del busto
marmoreo di re
Umberto I,
togliendolo
dalla piazza
omonima per
portarlo alla
Villa Garibaldi
e sostituendolo
con una statua
bronzea di una
donna con le sue
rotondità tutte
nude. Fatta
passare poi
arbitrariamente
come Cerere, una
divinità materna
della terra e
della fertilità,
per il semplice
fatto che
l’autore, il
bagherese
Sivestre Cuffaro,
avesse messo in
mano una spiga
di
triticum
turgidum,
ovvero di grano,
e peraltro senza
sapere a quale
città andasse a
finire la stessa
statua bronzea,
dal momento che
gli fu
commissionata
dalla Regione
siciliana di
allora. A parte
il fatto che la
dea
nell'iconografia
classica e
stata, ed è,
sempre
rappresentata
abbastanza
vestita, una
matrona severa e
maestosa, con
una corona di
spighe sul capo,
una fiaccola in
una mano e un
canestro ricolmo
di frutta
nell'altra. E
questa statua
bronzea
totalmente nuda
di Piazza
Umberto I è ben
lontana dal
possedere tali
caratteristiche
se non appunto
per la presenza
di una sola
spiga di grano
(sic). In realtà
esiste qualche
immagine di un
Cerere succinta,
come ad esempio
quella
affrescata da
Paolo Farinati,
nella Villa
Nichesola-Conforti
di Valpolicella
in provincia di
Verona, col
petto e la
pancia scoperti
ma con una
corona di spighe
sulla testa e
accanto un
canestro a forma
di cornucopia
colmo di frutta.
Attualmente
questa cartolina
d’epoca, oggi
alla nostra
attenzione, è
una delle più
animate di
Terranova di
Sicilia in
circolazione.
L’illustrazione
si riferisce
all’inaugurazione
del busto
marmoreo in
memoria di re
Umberto I,
avvenuta il 20
settembre del
1903, dopo tre
anni
dall'assassinio
del monarca.
Questo
monumento,
opera dello
scultore
palermitano
Antonio Ugo,
fu voluto
e elargito da
tutta la città e
rappresentò il
frutto di
nobilissimi
intendi verso
Casa Savoia, che
aveva fatto
l'Italia, e
l'intenso
sentimento
sabaudo che i
Terranovesi
nutrivano nel
loro cuore
memori di quel
Risorgimento
nazionale allora
così vicino
nello spazio e
nel tempo, una
consapevolezza
dì amor patrio
oggi purtroppo
abbastanza
desueta.
La cartolina,
che riporta sul
margine laterale
la didascalia
dell’antica
denominazione di
piazza
Duomo, è
conosciuta tra i
collezionisti
come quella
dello
“sfregiato”,
perché tra la
moltitudine
delle persone ne
compare una (in
primo piano a
sinistra tra
alcuni ragazzi)
che sembra avere
uno sfregio
sulla guancia
destra. Infine,
si notino l’uso
generalizzato di
cappelli sulla
testa delle
persone, ragazzi
compresi, e
sulla facciata
del Palazzo
Rosso, alle
spalle del
monumento, le
modanature
settecentesche
che furono
eliminate
probabilmente
verso la fine
degli anni Dieci
in concomitanza
dell’edificazione
di un altro
piano.
Nuccio Mulè
RICORDO DI
ATTILIO
GUGLIELMINO, IL
FOTOGRAFO DI
GELA
Il 5 gennaio di ventun anni fa moriva il comm. Attìlio Guglielmino, fotografo di Gela, che con le sue fotografie ha lasciato un patrimonio documentale d’inestimabile valore che abbraccia quasi un cinquantennio di manifestazioni, eventi, personaggi, monumenti e paesaggi di Gela. Con lui se n’è andato un personaggio vero, un uomo di qualità umane e integrità morali eccezionali, un caro ed affettuoso gentiluomo cui lo scrivente si può vantare di essergli stato amico. Attilio Guglielmino è scomparso alla veneranda età di 90 anni di cui ben 85 trascorsi a Gela, infatti egli era originario della città di Modica dove nacque il 30 ottobre del 1910. Trasferitosi a Gela grazie al fatto che suo padre fu qui richiesto dalla scuola di musica della banda comunale, di cui fu poi vicedirettore, Guglielmino dopo aver compiuto gli studi superiori si appassionò all'arte della fotografia al punto tale da non continuarli più per mettere su, ancora giovanissimo, uno studio fotografico prima in via Giacomo Navarra Bresmes e poi definitivamente in via Ventura. La sua abilità ed il senso artistico spiccato, certamente derivati dal padre che era non solo fotografo, ma anche valente pittore, lo portarono subito a riscuotere notevoli consensi da parte di moltissimi gelesi, i quali sempre più frequentemente lo chiamavano per fotografare qualsiasi avvenimento; non solo matrimoni, battesimi, feste danzanti e altro, ma a volte anche funerali. La sua lunga attività di fotografo lo vide a contatto con ogni ceto sociale, dalla gente umile che, vestita a festa, andava a farsi una posa fotografica, alla gente aristocratica che spesso lo richiedeva fino a casa per foto di gruppo familiare. Guglielmino, uomo semplice e onesto, sempre di comportamento gentile e amabile, accontentava tutti al meglio ritraendoli con quella professionalità che oramai le era riconosciuta da tutta la città. Se fosse possibile riascoltare le sue parole su “come realizzare una fotografia” sicuramente si rimarrebbe affascinati della descrizione così come è successo allo scrivente quando tempo fa lo andò a trovare. Oggi le foto vengono stampate in meno si un'ora da una macchina, diceva, mentre prima era molto diverso; infatti, “…bisognava avere a disposizione una camera oscura, bisognava prepararsi lo sviluppo, un intruglio quasi di alchimia degli antichi farmacisti, sia per il negativo (che era una lastra di vetro emulsionata) che per il positivo, e poi ancora il fissaggio e infine la stampa che veniva sempre perfezionata dal magistrale ritocco di matita. Ma prima dello sviluppo bisognava farla la fotografia…” E, in quello stesso incontro, ancora altre disquisizioni sul tipo di macchina fotografica, sul tipo di pompetta per lo scatto e sulla posa che era la cosa più importante per fare un'ottima fotografia. Dagli anni Trenta in poi si può affermare che la maggior parte delle immagini di Gela e dei sui abitanti hanno avuto la firma di Attilio Guglielmino. Ma non solo Gela e gelesi nel mirino della sua reflex, anche personaggi di livello altissimo quali Enrico Mattei e Benito Mussolini (venuto qui il 14 agosto del '37), fotografato tra l'altro quando ballava al lido Gela con la moglie del Prefetto e con donna Cesarina Morso. Guglielmino fu l'ultimo fotografo che ritrasse il Presidente dell'ENI, mentre stava per partire dal nostro aeroporto di Ponte Olivo per volare in quello di Catania, poche ore prima della sua tragica scomparsa nel cielo di Bascapè. Nel marzo del 1948, per i meriti professionali acquisiti, Guglielmino ricevette dall'Ordine Capitolare della Stella e Croce d'Argento della Santa Sede la Commenda con il fregiarsi del titolo di Commendatore. Guglielmino, inoltre, col passare degli anni era sempre più richiesto da enti privati e pubblici come fotografo professionista; così prestò il suo qualificato servizio per il Partito Fascista di Gela prima e per il Consorzio di Bonifica poi; sue sono tutte le fotografie dei lavori della Diga del Disueri sul fiume Gela; negli anni Cinquanta ricevette un incarico anche dall'Ufficio Tecnico Comunale; ancora più recentemente, siamo all'inizio degli anni Sessanta, richiesto dall'ing. Eugenio Semmola, diventò fotografo ufficiale dell'ANIC per fotografare da un elicottero tutti le fasi dei lavori del costruendo petrolchimico. Nel dicembre del 1995 su proposta dello scrivente il Comune di Gela, il Mo.I.Ca. e l’Archeoclub d’Italia conferirono una targa ad Attilio Guglielmino come giusto riconoscimento del sua professionalità nel campo della fotografia e come l'espressione più bella e più sincera dei sentimenti di stima e di ringraziamento per quello che ha lasciato a noi e alle future generazioni. La targa così recitava: AL COMM. ATTILIO GUGLIELMINO IN SEGNO DI STIMA E RICONOSCENZA PER LA SUA FOTOGRAFIA CHE TRAMANDA GELA DEI TEMPI TRASCORSI ALLA PIU' REMOTA POSTERITA' COMUNE DI GELA MO.I.CA. ARCHEOCLUB D'ITALIA 1° dicembre 1995 IL CIMITERO MONUMENTALE DI GELA Dopo l’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, il divieto comunale di seppellimento nelle chiese e negli spazi adiacenti fu introdotto nel Regno delle Due Sicilie con le leggi borboniche 11 marzo 1817 e 12 dicembre 1828. L’art. 1, della prima legge, relativo alla costruzione dei camposanti, recitava: “Il seppellimento de’ cadaveri umani ... dovrà esser fatto per inumazione, ossia interrimento, non già per tumulazione, ossia dentro le sepolture”; insomma, la pratica più igienica da seguire affinché “le sue esalazioni non possano esser spinte verso l’abitato” doveva essere quella di seppellire i morti sotto terra nei camposanti, spazi appositi recintati e distanti dalle città, seppellimento che avrebbe favorito la decomposizione dei cadaveri diminuendo il rischio di epidemie. L’applicazione a Gela (allora denominata Terranova) delle suddette leggi fu ritardata di quasi un trentennio e ciò probabilmente a causa dei moti rivoluzionari in Sicilia del 1820 ma forse anche per motivi economici del Comune. Comunque sia andata, in un verbale datato 1° settembre del 1844, riscontrabile in un carteggio di “Sanità” dell’Archivio storico comunale, si legge di una processione popolare con “autorità civili e religiose, che dalla chiesa Madre si avviano verso contrada Capo Soprano dove avverrà la benedizione del Camposanto”. Dal carteggio di cui sopra si legge anche che fino al 1840 in diverse chiese di Terranova esistevano 54 sepolture, prima della loro chiusura, così ripartite: Chiesa Madre: n.13; Ch. S. Giovanni n.2; Ch. Rosario n.9; Ch. Santa Caterina n. 1; Ch. S. Antonio n.2; Ch. S. Nicola n.3; Ch. Santa Lucia n.1; Conservatorio delle orfane n.1; Ch. S. Francesco di Paola n.5; Ch. S. Francesco d’Assisi n. 17. Adesso, grazie al risultato di una serie di ricerche effettuate su carteggi di patrie memorie del locale Archivio storico, lo scrivente è in grado di approntare una sintetica e inedita storia del Camposanto, oggi Cimitero Monumentale della città. Il progetto (definito “Piano d’arte e perizia”) della costruzione del Camposanto a Terranova in contrada Capo Soprano fu redatto in data 9 febbraio 1840 dall’Arch. Emmanuele Di Bartolo, forse padre o fratello del famoso architetto Giuseppe, quest’ultimo autore nel 1844 della facciata della chiesa Madre. In origine il Camposanto (vedi piantina qui riprodotta), prima del suo ampliamento, era costituito da un rettangolo di 131 m. di lunghezza e 41,35 m. di larghezza, per una superficie di 5.416,85 mq., con “una reale di mq. 3.746,85 e una disponibile di mq. 1.670,00”. Il sistema maggiormente utilizzato per il contenimento dei cadaveri era quello a inumazione, ovvero il seppellimento del cadavere in una fossa scavata nella terra. Il Camposanto di Terranova aveva due ingressi, la cosiddetta “porta infelice” a est, da cui passavano i carri funebri per entrare nel cimitero, e l’altro a sud (prospiciente la carreggiabile Terranova-Licata diventata poi prolungamento del Corso principale), da cui si accedeva all’area cimiteriale. Esternamente al muro perimetrale del cimitero, sui lati nord, est e ovest, vi erano dei filari di alberi e uno “spazio viabile di circonvallazione al Cimitero”, mentre sul lato sud era presente un “boschetto” che iniziava dalla chiesetta di S. Biagio, utilizzata come “vecchia sala di osservazione dei cadaveri” e finiva prospiciente la carreggiabile suddetta. Lo spazio interno del cimitero era costituito da 8 aiuole di diversa grandezza disposte simmetricamente su due file e separate da viali di accesso. Al centro del cimitero era presente una piazzola con una croce in pietra su un piedistallo. L’incremento demografico a Terranova tra il 1830 e il 1880, che portò la popolazione da circa 10.000 a quasi 18.000 abitanti, comportò da parte dell’Amministrazione comunale di allora l’esigenza di ampliare il vecchio Camposanto per accogliere i morti che in particolare nel quinquennio 1878/1882 furono di 531 in media annua. Pertanto, nel 1883 si diede incarico agli ingegneri comunali Rocco Failla e Angelo Di Bartolo di redigere un progetto di ampliamento del Camposanto, progetto che, per quanto ci è dato sapere, fu firmato dal mentovato ingegnere Failla; Nereo Manetti, Regio Delegato Straordinario del Comune di Terranova, a proposito di tale ampliamento scriveva raccomandando agli ingegneri che “…si deve considerare questo non come casa nuova da farsi, ma come modificazione o completamento di cosa già fatta”. Un primo progetto del Failla del 18 novembre 1873 sull’ampliamento a nord del vecchio cimitero a nord avrebbe comportato un aumento di superficie di 17.423,25 mq., da dividere in quattro sezioni su altrettanti terrazzamenti della larghezza di 92,45 m. (i terrazzamenti attuali della quattro sezioni). Un secondo progetto del Failla, in data 10 gennaio 1887, prevedeva anche l’ampliamento del cimitero verso est con un ingresso principale a sud prospiciente la carreggiabile Terranova-Licata (l’attuale viale principale con le cappelle gentilizie ai lati e il sacrario dei caduti in guerra in fondo). Tali progetti, però, in seguito alla scomparsa del Failla, furono in parte ripresi e modificati in data 5 settembre 1890 dal nuovo progettista Ing. Salvatore Buscemi. Alla fine, il 12 maggio 1893, i lavori del progetto definitivo furono concessi in appalto agli impresari Gaetano Turco e Giacomo Fargetta, per una spesa prevista di 45.000 lire, e iniziati il 19 maggio dello stesso anno. Il collaudo dell’opera fu stilato in data 12 settembre 1895 dall’Ing. Giuseppe Maria Ciofalo di Termini Imerese. Due anni dopo, il 10 aprile 1897, la Commissione comunale di vigilanza del cimitero, in merito alla destinazione di una parte dello stesso a sezione monumentale, emise un regolamento per disciplinare la costruzione di cappelle gentilizie e ricordi marmorei, regolamento che negli ultimi cinquant’anni è stato eluso e calpestato con la complice e indolente tolleranza, se non dolosa, dell’istituzione comunale competente. Prima dell’inizio dei lavori di ampliamento del cimitero monumentale originario, su diverse superfici di proprietà del provinciale agostiniano P. Giuseppe Tasconi contigue alla chiesetta di S. Biagio, furono edificati la Chiesetta di S. Nicola di Tolentino (aperta al culto il 10 ottobre 1880), il Colombaio cimiteriale “per le Figlie di Maria della Consolazione” e un convento, quest’ultimo oggi di proprietà comunale e sede della Biblioteca. Recentemente, in merito alle estumulazioni paventate da questa amministrazione comunale per recuperare spazi disponibili per la tumulazione, non si riesce a capire perché le attuali aree di terreno delle quattro sezioni terrazzate del cimitero monumentale risultano da tempo inutilizzate per le inumazioni. Nuccio Mulè ---------------------------------------------
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