QUOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE

Febbraio 2025


ARGOMENTI

Ottantuno tombini in Vico Santa Lucia?

Facciamo le persone serie per cortesia!!

Cartolina di oggi

ARENE CINEMATOGRAFICHE A GELA

LA TRAGEDIA DELLE FOIBE

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Ottantuno tombini in Vico Santa Lucia?

Facciamo le persone serie per cortesia!!

 

    Che pena osservare nel centro storico murato di Gela quelle sue parti stravolte dall’esecuzione di un progetto, pagato a fior di milioni dal demanio, che ha creato un contesto alieno di arredo ur­bano; zone in particolare riferite al Corso, che va da Piazza Calvario a Via Marconi, alla piazza Sant’Agostino e al vico Santa Lucia. Forse abbiamo a che fare con un manufatto che dovrebbe essere inserito nei libri di storia dell’arte quale esempio di “…grande opera architettonica”. Ironia a parte, ci si chiede: …e quelli che avrebbero dovuto controllare, quali giu­stificazioni potranno dare, ammesso che li diano o che se ne siano accorti?

    Se si passa nel dettaglio del Corso e dell’ex vico Santa Lucia poi si cade veramente nel grottesco; infatti, sulla parte del Corso tra via Marconi e via Porta Vittoria, a parte un basolato stradale molto rilevato che rende difficoltoso alle donne con i tacchi camminarci, sono stati inseriti sul marciapiede di 2,5 metri, già quindi di limitate dimensioni, dei blocchi rettangolari di 75 cm. su cui sono stati posti dei pali con un’illuminazione di tipo fioca quasi cimiteriale a parte il filo della presa di terra volutamente scoperto, mentre sulla strada e sugli stessi marciapiedi sono stati realizzati qualcosa come 180 tombini di varie dimensioni (marciapiede lato sud n. 76 tombini, strada del Corso n. 31, marciapiede lato nord n.73). Per vico Santa Lucia ci si chiede come è concepibile che in circa 500 metri quadri di superficie si siano potuti ricavare qualcosa come 81 tombini di diverse dimensioni e peggio ancora senza averli opportunamente occultati! In­credibile ma vero, il lettore si passi il piacere perverso di andarli a contare.

    Eppoi che cosa c’entrava la realizzazione di questa specie di due abbeveratoi quando in questo vicolo e in via De Sanctis l’unica struttura esistente in antico erano delle fontanine? E’ vero che i nostri conterranei progenitori realizzarono gli abbe­veratoi, ma sempre ubicati al di fuori del centro storico, come ad esempio quelli di contrada Car­rubbazza e l’altro di fronte all’ingresso del Cimitero monumentale, da decenni non più esistenti perché ignorantemente demoliti da diverse amministrazioni comunali.

    Si è fatto in particolare un calcolo di probabilità sul numero dei tombini relativo alla definizione dei lavori previsti dal progetto in questione, in particolare negli 800 metri che vanno da Piazza Calvario all’incrocio della zona dei Quattro Canti. Si è arrivati ai seguenti dati: Vico Santa Lucia con 81 tombini (già esistenti), Corso da piazza Calvario a via Marconi (m. 258) con un totale di 180 tombini (già esistenti); da via Marconi ai Quattro Canti (m. 547) con 381 tombini; via Giacomo Navarra Bresmes (m. 318) con 220 tombini; Piazza S. Agostino e via De Sanctis con 90 tombini (giù esistenti). Così in base alla somma di tali numeri si arriverebbe ad un totale di quasi mille tombini (81+180+381+221+90 = 953)!! Un immenso tombinaio nel centro storico murato di Gela. Alla faccia…

    E’ condivisibile intanto l’azione di ironica provocazione del Cav. Carlo Varchi, il quale tempo addietro portò un quadrupede in Vico Santa Lucia per farlo abbeverare in questa specie di abbeveratoio, da cui peraltro non è mai uscita una goccia d’acqua.

    Ed ancora. A quale dettame architettonico di arredo urbano si è rifatto il progettista an­dando a realizzare una superficie basolata a macchia di leopardo del vico Santa Lucia e dei marciapiedi del corso e di Piazza Sant’Agostino, con piccoli basoli peraltro cemen­tati con materiale che, forse col tempo e con l’azione erosiva dell’acqua piovana, creerà tanti di quegli avvallamenti da rendere difficoltoso camminarci sopra. A proposito di queste basolette si vuole ricordare che tempo fa intervenne anche il compianto Avv. Vincenzo Capici che peraltro contestò al progettista la scivolosità di tali mattonelle durante la pioggia per le persone costrette ad utilizzavano il bastone per camminare. Ed ancora, che senso ha avuto andare ad impiantare sul lato sud del vico prospiciente il Corso dei blocchi cilindrici di pietra sbilenchi che, contrariamente all’estetica che si rispetti, danno solamente un effetto di cattivo gusto; senza contare quelli in Piazza Sant’Agostino e davanti la banca Intesa sul Corso, definiti come tabuti (ovvero casse da morto) dalle persone; per non scrivere del “belvedere” di via De Sanctis, prospiciente via Porta Vittoria, da cui affacciandosi c’è poco di bello da vedere! Sarebbe stato corretto definirlo “malvedere”!! E delle due scale ai lati del “malvedere”, che dire? In una di esse, definita dallo scrivente “la scala dello scippo”, diverse signore di sera, uscite dalla vicina chiesa di Sant’Agostino dopo la messa, hanno subito delle rapine tant’è che per evitare il ripetersi di tale incresciosa situazione preferiscono tuttora di fare il giro più lungo passando dal Corso per ritornare a casa.

    Quella dei basolati purtroppo è stata da sempre una iattura di tutte le amministrazioni comunali che dagli anni Sessanta in poi si sono susseguite alla guida di Gela; sono senza fine i danni causati ad una delle più importanti componenti architettoniche di una città, danni imputabili spesso a ignoranti capricci, peggio forse ad interessi personali. Che orrore constatare che del basolato antico di pietra della lava del Vesuvio e dell’Etna a Gela non sia rimasto più nulla se non qualche tratto di Via Navarra, di Via Rossini e di Via Marconi, peraltro quest’ultimo tutto squinternato e mal “ripizzatu” di asfalto. E che dire delle grosse basole di pietra bianca comisana dei marciapiedi del Corso da Molino a Vento al Cimitero, 4 chilometri in totale, eliminati durante i lavori dei “cantieri scuola” nel 1987?! La cosa più importante, però, è quella di capire che fine hanno fatto tali basole divelte. Ci si chiede se sono state rivendute, oppure sono state lasciate alla mercè del primo che passava. Cosa probabile quest’ultima se non certa dal momento che in diverse ville, tali grosse basole fanno bella mostra di sè.

    Che strana scelta progettuale poi è quella che a Gela si tende ad “occupare” a tutti i costi le superfici libere (nate come tali) del centro storico peraltro facendo spendere di più con l’impianto di fontane, piscine, fosse, alberi a grande chioma e quant’altro snaturandone di conseguenza il contesto originario, tipo Vico San Rocco, Via Giacomo Navarra Bresmes, Piazza Vittorio Veneto, Piazza Sant’Agostino, piazzetta contigua alle Scuole Santa Maria di Gesù in Via Ventura e Piazza San Giacomo dove peraltro è stato creato un falso storico con l’impianto del portale trecentesco della vicina chiesa di San Giacomo. Che senso ha parlare ancora di centro storico quando di storico non rimane più quasi nulla?

    Ci si chiede che fine faranno di questo passo il Corso e le rimanenti piazze del centro storico murato di Gela inseriti nel contesto del progetto di “Una via e tre piazze”; come ad esempio Piazza San Francesco dove si prevede una cavea quadrata per assistere …agli spettacoli. Su questa piazza, però, non è detta l’ultima parola in quanto esistono diverse perplessità che potrebbero essere incompatibili con i lavori previsti, infatti tale piazza non era compresa nel progetto originario, quindi probabilmente di motu proprio è stata scelta per sostituirla a Piazza Roma senza le dovute azioni che ne precedono la fattibilità. C omunque si starà a vedere.

    Certamente non ci sembra un’idea peregrina quella di realizzare i progetti che interes­sano la collettività tenendo conto anche dei pareri, se pur non vincolanti, di specifiche associazioni e di quelli dei comitati di quartiere; un caso di antesignana visione sul coinvolgimento della gente nella realizzazione delle opere pubbliche. Forse il caso di Piazza Roma, che è stato escluso dal progetto di cui sopra, ha rappresentato un’eccezione grazie soprattutto agli abitanti di tale quartiere ma anche all’intervento efficace di Saro Crocetta (esiste un filmato che attesta tale scelta) che si dimostrò un antesignano contestatore dello progetto anche se lo stesso politico, però, cambiando clamorosamente idea dopo l’elezione a sindaco (del 12 marzo 2003), contribuì a portarlo in esecuzione.

    Non si scrive nulla di eccezionale nell’affermare che il cortile di Santa Lucia (una volta cortile, oggi una via), le vie e le piazze di Gela tutte non sono di proprietà degli amministratori, né degli architetti, né della gente che ci abita, ma sono di tutti.

    E per quanto riguarda gli ottantuno tombini in Vico Santa Lucia?

    Facciamo le persone serie per cortesia!!

Cartolina di oggi

ARENE CINEMATOGRAFICHE A GELA

    La cartolina di oggi, risalente agli anni Sessanta, si riferisce ad una veduta del Municipio con una foto scattata da una casa prospiciente via Carducci nel quartiere Ospizio Marino. Di cartoline che ritraggono l’attuale Municipio ne esistono molte, ma questa in particolare richiama l’attenzione perché oltre al Municipio si vede una zona riferita all’orto di Don Nino Sola, una volta coperto di verde e oggi intensamente fabbricato, con un’arena cinematografica, l’arena Aurora, oggi ridotta di superficie e con quel che rimane da decenni in fase di abbandono.     Fino a più di mezzo secolo fa i cinematografi di Gela, prima della realizzazione di aperture del loro tetto (come i cine-teatro Royal, Ariston e Mastrosimone), in estate rimanevano chiuse perché erano sostituite dalle arene cinematografiche. A Gela esistevano fino alla seconda metà degli anni Cinquanta ben sette arene, funzionanti durante il periodo estivo di cui riportiamo un elenco in ordine temporale: ARENA GARIBALDI all’interno della villa comunale, ARENA LITTORIO nel quartiere Orto Fontanelle sotto il Municipio (durante lo Sbarco Alleato quest’arena fu trasformata in campo di raccolta dei prigionieri italiani), arena DEL SOLE nel quartiere Molino a Vento dove ora sorge il Museo Archeologico, ARENA TRINACRIA O MIRAMARE sotto il Bastione nel quartiere Rabatello, ARENA STELLA DEL MARE, nel quartiere Toselli, dove sulla sua superficie diversi lustri fa è stato ricavato un parcheggio (denominato appunto Parcheggio Arena), ARENA AURORA in Via G. Carducci (quella che si vede sulla cartolina presentata oggi) e l’ARENA GARDEN al Villaggio Aldisio in Via Disueri di cui oggi rimangono ancora i muri perimetrali.  

  

    In ognuna di tali arene cinematografiche i posti a sedere erano spesso separati da una transenna; quelli vicini allo schermo, dove si pagava di meno, e gli altri vicini alla cabina di proiezione del film. I filari dei sedili erano in ferro e prima dell’ingresso all’arena, al prezzo di L. 5, erano forniti agli spettatori dei cuscini che evitavano il bagnarsi dei pantaloni con l’umidità che si depositava sulla superficie degli stessi sedili; poi a fine film erano spesso buttati in aria dagli spettatori e conseguentemente recuperati dalla cosiddetta maschera, che li rimetteva di nuovo in circolo. Nel caso di una casuale pioggia i biglietti potevano essere usati per altre giornate.

    

  

    Nell’arena Stella del Mare gli spettatori durante la proiezione a volte erano colpiti da pietre, lanciate sconsideratamente da ragazzini da via Istria, proprio a ridosso dell’arena cinematografica, senza che mai si riuscisse a prendere i colpevoli o a limitarne la loro deplorevole azione.     Le ultime arene cinematografiche, che si sappia, funzionanti fino agli Sessanta furono l’Arena Stella del Mare e l’Arena Garden; poi sparirono anch’esse definitivamente chiudendo così, senza più riaprirlo, il ciclo storico dell’intrattenimento estivo delle arene cinematografiche di Gela; anche se dal 2011 al 2015 nel quartiere Macchitella lo spazio antistante al Cine Teatro Antidoto fu trasformato in arena cinematografica. Oggi la proiezione di film avviene solamente nella multisala Hollywood, l’unica a tale scopo che è rimasta a Gela.  

  

    La cartolina, che ritrae anche parte dell’arena cinematografica Aurora, con ingresso in via Carducci, a ridosso dell’ex orto di Don Nino Sola sotto viale Mediterraneo, riporta sul retro le scritte The City Hall - Hotel de Ville Stadthaus e Ed. Cartolibreria G. B. Randazzo - Gela - Vera Fotografia. S. A. Fototipia Berretta - Terni.

LA TRAGEDIA DELLE FOIBE

    E’ da qualche decennio che la storiografia italiana sta mettendo in luce il tragico evento delle foibe (cavità naturali presenti sull’altipiano alle spalle di Trieste e dell’Istria) dove i titini, ovvero i partigiani di Tito, vi gettarono migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive; tutte colpevoli di essere italiane o contrarie al regime comunista. Avvenimenti purtroppo sotto certi aspetti ancora poco chiari nella piena contezza della storia contemporanea.

    Nel 2005 il Parlamento italiano ha scelto il 10 febbraio come giornata del ricordo per commemorare l’olocausto degli Italiani dell’Istria e della Dalmazia, anche se spesso è stato  considerato solamente come una conseguenza o una vendetta, derivata da venti anni di fascismo con le persecuzioni fasciste antislave nella regione di confine.

    Infatti, prima del 1943 in Jugoslavia, i fascisti avevano istituito dei campi di internamento per migliaia di jugoslavi, in particolare per i partigiani comunisti di Tito; addirittura i fascisti avevano fatto pubblicare il 1° dicembre del 1942 la “circolare 3C” dal Comando superiore FF.AA. “Slovenia e Dalmazia”, firmata da Mario Roatta, Generale del Secondo Corpo d’Armata,  con distribuzione estesa sino ai comandanti di battaglione e reparto o enti corrispondenti; circolare che impunemente autorizzava a giustiziare gli ostaggi, deportare famiglie intere e a distruggere case, fattorie e bestiame, inoltre, nella “Parte Quinta” era previsto il “trattamento da usare alle popolazioni ed ai partigiani nel corso delle operazioni” oltre al fatto che tale trattamento non doveva essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”.

    Si volle quindi regolare l'atteggiamento che le truppe italiane dovevano mantenere nei confronti della resistenza jugoslava e della popolazione civile dei territori occupati, con l’accettazione del principio di complicità della popolazione residente in un'area di attività partigiana e assumendo come metodo la politica del terrore contro i civili, ordinando rappresaglie, deportazioni, confische, catture di ostaggi e fucilazioni sommarie. Addirittura Benito Mussolini  nel 1920 in un comizio a Pola affermava: “…di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”.

    Dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 esplose la prima ondata di violenza dei titini; in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi di Tito decisero di vendicarsi contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturarono, massacrarono, affamarono e poi gettarono nelle foibe circa un migliaio di persone. Successivamente nella primavera del 1945 la violenza aumentò, in particolare quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenarono contro gli italiani. Ad essere buttati dentro le foibe (infoibati) ci furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini indistintamente. Gli infoibati furono prevalentemente italiani, ma in generale anche tutti coloro che si opponevano al regime comunista di Tito e quindi erano compresi anche sloveni e croati. Tra gli italiani vi erano ex fascisti, ma soprattutto gente comune colpevole solo di essere italiana o contro il regime comunista.

    Nel febbraio del 1947 l’Italia ratificò il trattato di pace che pose fine alla Seconda Guerra Mondiale con l’Istria e la Dalmazia che vennero cedute alla Jugoslavia; così trecentocinquantamila persone si trasformarono in esuli scappando dal terrore che, però, non trovarono in Italia una grande accoglienza. Forse la sinistra italiana allora li ignorò in quanto non suscitava solidarietà chi stava fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si era convinti che era stato realizzato il sogno del “socialismo reale”.Fino a tempi recentissimi il dramma delle foibe e tutto ciò che accadde allora, prima e dopo, non venne mai approfondito, nonostante che si abbia avuto a che fare con una delle pagine più angoscianti della storia italiana, di cui è iniziata molto più tardi l’elaborazione. Quindi, la persecuzione proseguì fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, fu fissato anche se in maniera non definitiva il confine fra l’Italia e la Jugoslavia; infatti, per avere un confine definitivo tra i due Stati bisognò aspettare il “Trattato di Osimo” del 10 novembre 1975, in cui si riconobbe la sovranità jugoslava sui distretti di Capodistria (oggi in Slovenia) e di Buie (oggi in Croazia) e confermava quella italiana a Trieste. “…Sembra proprio che quel 10 novembre 1975 il confine sia stato determinato in maniera ormai immodificabile e che l’interesse nazionale, che avrebbe dovuto dirigere la politica estera nella ex Jugoslavia, sia stato considerato un orpello sovranista del quale fare a meno Da un’indagine del Centro Studi Adriatici, raccolta in un albo pubblicato nel 1989, le vittime di tale tragedia furono 10.137 di cui 994 infoibate, 326 accertate ma non recuperate dalle profondità carsiche, 5.643 vittime presunte sulla base di segnalazioni locali o altre fonti, 3.174 morte nei campi di concentramento jugoslavi. Certamente rispetto alle stragi naziste nei lager con milioni di morti c’è una notevole differenza di numero, ma l’orrenda morte degli infoibati è stata una peculiarità unica nelle atrocità dell’ultima guerra. La cosiddetta impropriamente "caccia al fascista", si esercitò non solo sui fascisti ma anche nei confronti di antifascisti, dei componenti dei Comitati di Liberazione Nazionale di Trieste e di Gorizia e degli esponenti della Resistenza liberaldemocratica e del movimento autonomistico di Fiume. Dunque, infoibati perché italiani! Lo storico triestino Roberto Spazzali sintetizza "…Le foibe furono il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale. Chi non ci stava, veniva eliminato".Il dramma delle foibe a danno di militari e civili italiani, dapprima nell'autunno del 1943 e successivamente nella primavera del 1945, rappresenta tutta una storia di tragedie, di morti e di sofferenze, una storia vissuta oltre dai soldati, mandati allo sbaraglio e alla morte dal regime fascista, anche dalla popolazione civile soprattutto nelle carceri e nei campi di concentramento iugoslavi.

Militari gelesi in Iugoslavia

   Si riportano adesso qui di seguito i nominativi di sei militari gelesi (di cui tre carabinieri) che furono allora vittime della vendetta dei titini iugoslavi:

CORFU’ PAOLO, nato a Terranova di Sicilia il 14 aprile 1920. Carabiniere aggregato al 2° Rgt. Fanteria della Milizia Difesa Territoriale, deceduto per infoibamento l’11 giugno 1944 nella foiba di Pisino, lunga 500 m. e profonda circa 100 metri, a Pedena d'Istria in Croazia, un volta in provincia di Pola.

FASULO SALVATORE di Luigi. Nato a Terranova di Sicilia il 2 marzo 1906. M.llo dei Carabinieri in Jugoslavia aggregato al 1° Rgt. Fanteria “Trieste”, arrestato il 30 aprile 1945 e tradotto in un campo di internamento a Susak, una piccola isola del nord dell’Adriatico. Considerato disperso, probabilmente soppresso dai titini il 31 dicembre 1945.

SPURIO GIOVANNI di Luigi. Nato il 7 maggio 1908 ad Ascoli Piceno e residente a Terranova di Sicilia. Carabiniere della Guardia Nazionale Repubblicana a Zara. Considerato disperso il 18 novembre 1944 a Vis Isola di Lissa in Dalmazia, probabilmente soppresso dai titini e sepolto in Jugoslavia;

LICATA GIOVANNI. Nato a Terranova di Sicilia il 15 settembre 1893. Soldato sul fronte iugoslavo deceduto il 14 maggio 1943 soppresso dai titini e sepolto in Jugoslavia.

MINARDI BIAGIO di Giovanni e di Tuvè Francesca. Nato a Terranova di Sicilia il 19 giugno 1915. Deceduto il 25 giugno 1943 soppresso dai titini e sepolto in Jugoslavia.

MAURO EMANUELE di Giovanni. Nato a Terranova di Sicilia nel 1923. Arrestato a Monfalcone l’8 maggio 1945 e deportato nell'ospedale militare del Seminario Minore a Gorizia.  E’ presente nella lista “Ritornati” di oltre 1.000 deportati e infoibati di Gorizia

Le foibe di Basovizza e Monrupino

    La “Foiba di Basovizza”, originariamente un pozzo minerario, una della cinquantina di luoghi di infoibamento, nel maggio del 1945 fu un posto di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili per mano dei partigiani comunisti di Tito. Durante i 40 giorni di occupazione jugoslava di Trieste, a partire dal 1° maggio 1945, centinaia di persone furono prelevate dalle loro case e portate ai campi d’internamento presenti in Slovenia anche se non tutti furono internati, al contrario di numerosi prigionieri che furono direttamente destinati a Basovizza per essere ferocemente ammazzati. Gli autocarri, noti come “autocarri della morte”, trasportavano le vittime con le mani legate da filo di ferro, prima spogliate e poi seviziate, e spesso unite tra loro in catene umane. Giunte al margine dell’abisso, furono spinte verso il bordo mentre una raffica di mitra faceva precipitare tutti nella voragine. La caduta di circa 200 metri era spesso mortale, ma chi sopravviveva al volo continuava ad agonizzare tra le ferite e le lacerazioni provocate dagli spuntoni di roccia. Dal 1992, la Foiba di Basovizza è stata ufficialmente riconosciuta come Monumento Nazionale italiano, mentre nel 1993 lo è diventato pure la foiba di Monrupino. Questi luoghi oggi mettono in rilievo la loro importanza storica di riflessione e commemorazione per ricordare le atrocità commesse durante quel tragico periodo; e diventano un luogo di pellegrinaggio per coloro che vogliono onorare le vittime delle violenze e mantenere viva la memoria di questi passati eventi drammatici.

Giorno del Ricordo

    Il Parlamento Italiano, con legge 30 marzo 2004 n.92, istituì il Giorno del Ricordo, in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, e delle vicende del confine orientale, prevedendo la concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, al fine di dare un segnale di risarcimento morale ai pregiudizi subiti immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale da quella parte degli italiani che risiedevano nell'Istria, a Fiume e nella Dalmazia.

    Il riconoscimento, a titolo onorifico e senza assegni, consiste in un'insegna metallica, con relativo diploma, da concedere a domanda al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti ovvero, in mancanza di questi, ai congiunti fino al sesto grado, di coloro che dall' 8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947, in Istria, in Dalmazia o nelle province dell'attuale confine orientale, furono soppressi e infoibati, nonché agli scomparsi ed a quanti nello stesso periodo e nelle stesse zone, furono soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati.

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