QUOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE
Febbraio 2024
ARGOMENTI
A
partire dal mese di gennaio si è iniziato a
scrivere sulla storia di Gela, dalla sua
fondazione del 688 a.C. fino al dopoguerra. E
ciò con il contributo iconografico del pittore
Antonio Occhipinti e con le schede realizzate da
Nuccio Mulè, oltre alla traduzione in inglese
della Prof.ssa Tiziana Finocchiaro. Oggi si
scrive la tredicesima puntata dal titolo "
Ampliamento della città a ovest". |
13 -
Ampliamento della città a ovest
Cartolina di oggi
La trivella petrolifera nella Piana del Gela
Lo sfregio dell'identità dell'antico centro storico
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13 - Ampliamento della città a ovest
Se si escludono
insediamenti limitati sparsi nella campagna, si
afferma che, fino alla seconda metà del
Settecento, la città di Gela (Heraclea-Terranova)
rimase all'interno della propria cinta muraria.
La prima zona sulla quale dal 1766 in poi
cominciarono a comparire veri e propri
insediamenti abitativi, è quella a ovest delle
mura federiciane, cioè la zona del Borgo. Essa
fu divisa in due fasce; a sud il piccolo borgo
"‘u Rabateddu", a nord il Borgo vero e proprio
"'u Buvuru". Per rendere abitabile tale zona a
ovest delle mura, si ricorse a una necessaria
trasformazione dei luoghi poiché la zona, oggi a
nord-est della villa comunale, era interessata
da un avvallamento a forma di “V”, creatosi nel
tempo e dovuto alla lenta erosione causata dello
scorrimento delle acque piovane che si
riversavano verso il mare e di cui il cosiddetto
“Orto di Pasqualello” ne era il declivio
naturale. In origine dunque si deve immaginare
una trazzera che percorre tale zona scoscesa che
scende per diversi metri per poi risalire
gradualmente verso ovest, all’altezza
dell’attuale Convitto Pignatelli, con un
percorso accidentato e per niente proponibile
nei periodi di pioggia. Pertanto, è presumibile
che, prima o in seguito alla realizzazione
dell’area urbana del Borgo, si sia iniziato a
costruire l’attuale ponte ripieno per livellare
la zona a nord del suddetto “orto” e quindi
congiungere il centro murato, mediante una
carrozzabile, con l’area a nord-ovest
dell’attuale villa comunale dove nasceranno i
quartieri S. Giacomo, S. Ippolito e Cimitero.
Occhipinti realizza
la rappresentazione prospettica di una
Terranova, vista dal lato occidentale, con
torri, bastioni e porte prospicienti la “Strada
del Bastione”, oggi Via Matteotti; continua con
la strada principale del Corso che, tramite
Porta Licata, si collega a quella del Borgo
denominata allora “Strada Borgo” che, negli anni
a venire, prenderà le denominazioni di Via XX
Settembre, Corso Vittorio Emanuele e, più
recentemente, Corso Salvatore Aldisio. Alla
radice della “Strada del Borgo” l’autore ci fa
intravvedere, così come la immagina, la
depressione dell’”Orto Pasqualello” con il ponte
ripieno su cui disegna “’u cunnuttu”, cioè una
condotta, che realmente è esistito fino a
diversi decenni fa e che serviva a far defluire
le acque piovane verso il mare.
Inoltre, ai lati
del ponte ripieno, a completamento del tondo,
quattro contornati propongono le immagini più
rappresentative dei quartieri a ovest della
cinta muraria, quelli dei “Quattro Canti”, di
“S. Giacomo” con l’antica Chiesa di “S.
Jabechello”, del “Cimitero” con la vetusta
chiesetta arabo-normanna di S. Biagio, e “do’
Cummittu” col convitto Pignatelli-Roviano.
In alto, a centro
della rappresentazione, infine, due stemmi
sovrastano la tavola sinottica propostaci
dall’autore, quello della famiglia Pignatelli,
riconoscibile dalle tre piccole pignatte, una
delle più antiche e potenti famiglie di Napoli
proprietaria del “Feudo di Terranova”, e l’altro
della città con l’emblema dell’aquila sveva.
13 - Westwards expansion
Until the second
half of the eighteenth century, the city of Gela
was limited to the area within its walls. The
first settlements appeared around 1766 west of
the Walls in the district called Borgo. It was
divided in two areas: the southern, called
Rabateddu, and the northern, called Buvuru. The
area, which was affected by the slow erosion of
the rain waters crossing the Orto Pasqualello
and flowing to the sea, was gradually
transformed into a urban space through the
construction of a bank which allowed to join the
western and the north-western areas of the city
where the districts of San Giacomo,
Sant’Ippolito and Cimitero will be built.
Occhipinti
represents Terranova as seen from the western
side, with towers, gates and bastions
overlooking the Strada del Bastione, today Via
Matteotti. He continues with the main street,
the Corso, which, through the Licata door,
connects to the Strada del Borgo, and, in the
years to come, will take the names of Via XX
Settembre, Corso Vittorio Emanuele and, more
recently, Corso Salvatore Aldisio. At the ending
of the Strada del Borgo the author gives us a
glimpse of the Orto Pasqualello
with the bridge on
which he draws
“u cunnuttu," a
water line existing until several decades ago,
which was used to drain rainwater to the sea.
At the sides of the
bridge four frames propose the most iconic
images of the districts located to the west of
the city walls: Quattro Canti, San Giacomo with
its ancient church of San Jabechello, Cemetery
with the Arab-Norman church of San Biagio, and
do' Cummittu with the boarding school
Pignatelli-Roviano. On top, two coats of arms: the first, characterized by three small pots, belongs to the Pignatelli family, among the oldest and most powerful families of Naples and owner of the Feudo di Terranova; the other represents the city with the emblem of Swabian eagle.
Cartolina di oggi
La trivella petrolifera nella Piana del Gela
La cartolina degli
anni ’50 ritrae una trivella petrolifera in fase
di perforazione del sottosuolo nella Piana del
Gela. Dopo una serie di rilevamenti su delle
riflessioni sismiche del terreno prodotte
artificialmente, la prima perforazione “Gela 1”
iniziò il 14 febbraio del 1956 per terminare
alla fine di ottobre dello stesso anno con la
scoperta, a 3.405 m. di profondità, del
petrolio. Negli anni a seguire la ricerca
interessò anche il fondale marino di Gela, nel
1959 infatti fu effettuata una trivellazione
offshore
sul fondali del Golfo di Gela, la prima in
Europa con la piattaforma “Scarabeo 1” e la
motonave d’appoggio Saipem.
Sul retro della
cartolina si leggono “Ediz. Cartolibreria
Randazzo G. B.”, “Gela e Vera Fotografia -
Alterocca Terni” e l’indirizzo del destinatario
con la scritta “Pregiat.ma Signora Rosa Vacirca
Mattina, Albergo delle Fate Villaggio Mancuso
Taverna di Calabria”. Ed ancora “Un saluto
affettuoso e quello dei miei. Un caro ricordo
per i piccoli cui invio un affettuoso bacio. A
Papà e Mamma affettuose cordialità. Ti abbraccio
con tenerezza zia Virginia. Gela. I. Rosa 1960”.
Ed ancora “Grazie a te e zia Iolanda per
l’affettuosa lettera. Tanti cari baci …”.
Lo sfregio dell'identità dell'antico centro storico
Nella seconda metà degli anni Cinquanta e
in particolare negli anni a seguire, gli
amministratori della nostra città hanno avuto
uno “stravolgimento cerebrale”, definiamolo così
per non dire altro, che li fece diventare
“paladini della modernità a tutti i costi” a
danno del cosiddetto “vecchio” e ciò per il
solito motivo: più lavori, più amici e quindi
più favori di diversa natura compreso il cash;
infatti, proprio da quegli anni in poi iniziò un
attacco sistematico sia all’impianto urbanistico
medievale sia ai palazzi ottocenteschi e alle
chiese antiche del centro storico di Gela.
Iniziarono con l’eliminazione dei
basolati di pietra lavica vesuviana del Corso e
delle vie adiacenti per ricoprirli prima con
mattonelle di asfalto e poi con un manto
completo dello stesso; che fine abbiano fatto le
numerose basole divelte non si sa, però, il
lettore è libero di azzardare qualsiasi ipotesi
anche quella della regalia o vendita sottobanco
per la realizzazione di lastricati di ville… Non
contenti di questa prima azione distruttiva nel
centro storico murato si continuò con i basolati
di pietra bianca ragusana delle strade
secondarie e soprattutto di quelle dei cortili e
se di questi ultimi rimase qualcuno integro,
c’hanno pensato i privati a cambiarne i
connotati, vedi ad esempio vico Sciandrello.
Così nell’arco di una ventina d’anni fu quasi
azzerata l’antica basolatura delle vie e dei
cortili che rendeva Gela una delle poche città
in Sicilia a mantenere ancora tale rara
caratteristica. In verità fino al 1982 erano rimasti ancora i marciapiedi nord e sud del Corso, dal Museo archeologico fino al Cimitero monumentale (circa 1.120 m. moltiplicato per 2), con le grosse basole di pietra ragusana, però, i cosiddetti “cantieri scuola” (più squola che scuola), istituiti dal nostro Comune, le azzerarono sostituendole con mattonelle autobloccanti; ma dove andò a finire quell’enorme catasta di grosse basole? Idem come sopra? Sicuramente sì!! Oggi miracolosamente rimane ancora un piccolo e miserabile esempio di tali antiche basole, anche se squinternate, quelle sul marciapiede a sud della chiesa Madre.
Nel mentre si procedeva a tale feroce
eliminazione dei basolati, peraltro
vergognosamente e ignorantemente di stampo
istituzionale (in particolare l’istituzione
Soprintendenza ai BB.CC.AA. non si è mai
interessata), l’attenzione distruttiva si
rivolse anche ai palazzi che fino ad allora
erano rimasti uguali alla struttura che avevano
in antico. Anche qui l’istituzione “Comune di
Gela” e il pool dei dirigenti degli uffici
competenti, “generosamente e per spirito di
carità altrui…”, fecero la loro parte nei
confronti di diversi costruttori. Così i
cosiddetti “palazzinari” procedettero ad una
eliminazione sistematica, ancora più feroce di
quella delle basole, dei palazzi ottocenteschi e
anche di quelli più antichi. Dalla fine degli
anni Cinquanta in poi, infatti si iniziò con il
Palazzo Ducale (una costruzione a pianoterra che
risaliva al periodo federiciano) e parte del suo
cortile che furono azzerati da una impresa di
Caltagirone per realizzare al loro posto un
casermone di dieci piani, denominato
impropriamente “grattacielo”.
Seguirono l’Albergo Trinacria, risalente
al 1870, in piazza Umberto I e il palazzo di
fine Settecento-inizi Ottocento ad un solo piano
in piazza Sant’Agostino; il primo fu sostituito
con un palazzo a sette piani, il secondo con uno
a otto piani con il risultato di aver stravolto
fisicamente l’antica architettura degli stessi
luoghi. Anche se a completare maleficamente il
degrado architettonico di piazza Sant’Agostino,
di vico Santa Lucia, di via De Sanctis e parte
del Corso, provvide più recentemente il progetto
“Una via, tre piazze” con l’impianto peraltro di
un basolato “scassa piedi”, di marciapiedi
“scassa cavigghi”, blocchi quadrangolari di
pietra
per sostenere pali di luce tipo
cimiteriale, due specie di bevai (che da essi
fosse uscita mai una goccia d’acqua) e dei
cosiddetti “tabuti” e “puputuna” come da stretta
definizione popolare. Sempre con la usuale
logica perversa, ma gratificante: più spazi
occupi, più soldi (pubblici) spendi e quindi più
“amici” ti fai…
Seguirono dopo, o quasi
contemporaneamente, altri diroccamenti di
antichi edifici sul Corso Vittorio Emanuele come
quello del palazzo degli eredi del conte
Panebianco (tempo fa sede dell’UPIM), del
pianoterra del Banco di Sicilia (all’angolo tra
il Corso e via Giacomo Navarra Bresmes),
quest’ultimo trasformato come detto sopra in un
palazzo a sette piani ed ancora di metà palazzo
Drogo-Di Bona, del pianoterra contiguo a palazzo
Tedeschi, del palazzo Rosso di San Secondo
(all’angolo del Corso con via Cattuti) e il
palazzo delle signorine Porreca in via Morso,
quest’ultimo un unicum architettonico
rinascimentale. Sicuramente ce ne sarà sfuggito
qualche altro. E se la distruzione di altri
antichi palazzi rimasti a Gela si arrestò lo si
dovette ad una provvida legge dello Stato che
bloccò lo scempio di antichi palazzi dei centri
storici.
In tutto questo disastro architettonico
prodotto a Gela ci andarono di mezzo anche le
antiche chiese con annessi conventi; infatti
furono azzerate le chiese di Santa Lucia (del
sec. XVI, dal cui spazio si ricavò via De
Sanctis), di Sant’Antonio Abate (del periodo
rinascimentale da cui si ricavò l’attuale piazza
San Francesco) e i conventi dei PP. Conventuali
del sec. XV e dei PP. Cappuccini con l’unico
chiostro che era rimasto dei tanti eliminati in
precedenza in altri conventi.
A corredo di quanto scritto piace
aggiungere una notizia, definiamola così, quella
relativa all’Archivio Storico comunale e alle
lapidi all’interno della chiesa di Sant’Antonio
e del vecchio Municipio, lapidi di quest’ultimo
dedicate ai patrioti della nostra storia
risorgimentale. Quale fu la loro fine? Una buona
parte dei faldoni, zeppi di carteggi, del
vecchio Archivio Storico comunale fece una
brutta fine con un danno incalcolabile alla
storia della città mentre le lapidi fecero una
fine ancora più disdicevole e vergognosa,
infatti, furono divelte senza nemmeno
trascriverne il testo e trasferite al campo
sportivo dove furono utilizzate come marmo per
orinatoi e latrine alla turca (sic). Che fine
indecorosa!!
A proposito di
lapidi. Nel convento delle Suore
Benedettine di Clausura, adibito
fino al 1969 ad Ospedale Civico,
esistevano tre lapidi (una del
1916 e le altre due degli anni
Quaranta) che durante i lavori
di riattamento nella seconda
metà degli anni Novanta furono
eliminate; lo scrivente
prevedendo un loro brutta fine
provvide tempo prima a
trascriverne i testi che nel
corso degli ultimi decenni sono
stati messi ciclicamente a
disposizione dei direttori
sanitari che si sono succeduti
nella gestione dell’Ospedale
Civico di Capo Soprano;
direttori sanitari che mai hanno
dato un benchè minimo riscontro!
Figurarsi andare a pensare alle
antiche lapidi con i problemi
della Sanità sulla chiusura di
interi reparti dell’Ospedale
…non esiste!!
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