UOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE

Agosto 2024

ARGOMENTI

    A partire dal mese di gennaio si è iniziato a scrivere sulla storia di Gela, dalla sua fondazione del 688 a.C. fino al dopoguerra. E ciò con il contributo iconografico del pittore Antonio Occhipinti e con le schede realizzate da Nuccio Mulè, oltre alla traduzione in inglese della Prof.ssa Tiziana Finocchiaro. Oggi si scrive della diciottesima puntatala  dal titolo "Aldisio e la ricostruzione del dopoguerra".

18 - Aldisio e la ricostruzione del dopoguerra

 

MARIA SS. D’ALEMANNA, PATRONA DI GELA

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18 - ALDISIO E LA RICOSTRUZIONE DEL DOPOGUERRA

 

    Il tondo proposto da Antonio Occhipinti si riferisce alla figura di Salvatore Aldisio (1890-1964) e alla sua opera nei confronti di Gela nel dopoguerra. Aldisio ha rappresentato una figura chiave della storia siciliana al punto che si considera padre dell’autonomia regionale; è stato quindi un personaggio autorevole, ma lo è stato anche in ambito nazionale per il suo impegno allo sviluppo democratico del Paese. Deputato del Partito popolare nel 1921, fu uno dei maggiori organizzatori del movimento di Luigi Sturzo in Sicilia. Durante la sua militanza politica, diverse e importanti sono state le cariche cui fu chiamato dallo Stato: Prefetto di Caltanissetta, Alto Commissario per la Sicilia, Ministro dei Lavori Pubblici e della Marina Mercantile e, infine, Vicepresidente del Senato della Repubblica. In particolare, durante la carica di ministro nel dicastero dei LL.PP., Aldisio fu ispiratore di un notevole rinnovamento urbanistico di Gela con la realizzazione di opere importanti come il Villaggio Aldisio, il Lungomare, il Porto rifugio, il Municipio, il Museo Archeologico, le chiese di S. Giacomo e di S. Domenico Savio, la Diga Disueri sul fiume Gela, alcuni edifici scolastici, ecc.  Alcune figure di tali opere sono riportate nel tondo.

    In occasione di questa rivisitazione della figura di Salvatore Aldisio, si vuole qui proporre un brano tratto da un opuscolo, edito dal politico negli anni Quaranta, dal titolo “Ricordi di una grande battaglia”, che così recita: “Gela sarà la pietra di paragone, il dato di riferimento, la zona pilota alla quale guarderanno con ansioso interesse gli studiosi dei problemi economici e quanti chiedono e sperano di vedere finalmente redento il Mezzogiorno d’Italia che, rinnovato, irrobustirà l’economia generale di tutto il Paese”. “Gela - ne sono sicuro - non verrà meno a questo alto mandato che la Nazione e la Regione le affidano”. Il brano continua con un augurio alla città; “Già, con gli occhi della fantasia, io precedo i tempi. Vedo finalmente il povero aggregato di case nel quale sono nato, e dove molto ho sofferto, faticato e lottato, insieme a tutti coloro che hanno cooperato per il suo rinnovamento, avviarsi a giorni veramente migliori; vedo il modesto comune della mia fanciullezza, con volto interamente rinnovato, avviarsi all’antico splendore della gloriosa città mediterranea, le cui “immanes ruinae” destarono una profonda emozione nell’animo di Cicerone. Vedo la nuova città, attiva e pròspera, specchiarsi su quel mare che, dopo l’ultimo crudele conflitto, torna a essere una pulsante arteria di traffici, e a ricordarsi, attraverso questa comunione di popolo nel lavoro, di essere stato “acua lustrale” alla Religione che ha dato al mondo il dono delle più alte idealità umane”. “Iddio illumini le nuove vie segnate alla città: coloro che sapranno percorrerle con passo deciso e con l’animo sgombro da ogni meschino egoismo, lo porteranno verso l’adempimento della giustizia sociale, che è nella legge di Dio e nell’ansia degli uomini”. Il brano, che si può considerare come testamento morale di Aldisio lasciato ai politici gelesi e alla città, purtroppo è rimasto misconosciuto e ampiamente disatteso.

 

18 - Aldisio and the post-war reconstruction

    The painting refers to Salvatore Aldisio (1890-1964) enhancing his committment in improving the city of Gela after the war. Aldisio had a key role in the history of Sicily and he is considered as the father of regional autonomy, also being caught up in the democratic development of the country. Deputy for the People's Party in 1921, involved by Luigi Sturzo and his political movement, he was Prefect of Caltanissetta, High Commissioner for Sicily, Minister of Public Works and Merchant Marine and, finally, Vice-President of the Senate of the Republic. As the minister Public Works, Aldisio fostered a remarkable urban renewal of Gela with the construction of important works such as the Villaggio Aldisio, the Lungomare promenade, the Pier, the Town Hall, the Archaeological Museum, the churches of San Giacomo and San Domenico Savio, the Disueri Dam on the river Gela, as well as some school buildings.

MARIA SS. D’ALEMANNA, PATRONA DI GELA

 

      Alle sette di mattina del 5 settembre del 1954 con uno sparo di mortaretti ed un festoso suono di campane s’iniziavano a Gela, così come del resto avveniva ed avviene ogni anno da tempo immemorabile, i festeggiamenti di una delle più belle e suggestive ricorrenze religiose che richiama nella nostra città un gran concorso di popolo: la festa della Patrona Maria Ss. d’Alemanna. La ricorrenza di quell’anno, però, doveva assumere un’importanza particolare poiché il 19 settembre, alla presenza di una gran moltitudine di fedeli e autorità civili e religiose, dovevano essere incoronati, grazie al tangibile concorso economico del popolo gelese, le effigi bizantine della Madonna e del Bambino dal Nunzio Apostolico e Vicario Generale di Papa Pio XII, Cardinale Clemente Micara.

    Scortato da agenti della Polizia stradale in motocicletta Il cardinale Micara, giunto qui da Catania nel pomeriggio di sabato, accompagnato festosamente dalla folla tra il suono delle campane e una salva di mortaretti si recò in chiesa Madre dove l’attendeva il sindaco Francesco Vella per il saluto ufficiale e per sancire il patto di fede e di amore tra il presule ed il popolo di Gela, in nome e nel simbolo della Vergine. Nel pomeriggio il cardinale e le autorità inaugurarono il nuovo Municipio e il viale Mediterraneo tra rinnovate manifestazioni di giubilo della cittadinanza. Subito dopo il cardinale si recò prima in Piazza Roma per presenziare e benedire la ricostruita Caserma dei Carabinieri e poi nel quartiere di San Giacomo per consacrare la nuova chiesa omonima progettata dall’arch. Salvatore Cardella.  Nella giornata di domenica, verso le ore 11, nello splendore della chiesa Madre artisticamente addobbata e strabocchevole di fedeli, il vicario del Papa celebrò un solenne pontificale a cui parteciparono il cerimoniere pontificio Mons. Terzaroli e i seminaristi di Piazza Armerina cantando la “Missa pontificalis” del Perosi. Al Vangelo, il presule, con vivezza di fede e aligera parola, pronunziò l’omelia in onore di Maria.

     Verso le 18,30 di quel 19 settembre sul sagrato della chiesa Madre, in mezzo al tripudio festante del popolo, ebbe inizio la cerimonia dell’incoronazione della sacra icona della Madonna, incoronazione decretata il 30 luglio del 1954 dal Capitolo Vaticano. Alla presenza di una grande moltitudine di fedeli e in una piazza inghirlandata dalle luminarie, il cardinale Micara iniziò quindi la cerimonia intonando il solenne inno: “O gloriosa Vergine / più eccelsa di tutte le stelle / Tu sola hai potuto nutrire / col Tuo latte quel Bimbo / che è lo stesso Creatore”. E finalmente il momento tanto atteso: il cardinale si portò all’altare allestito sul sagrato dove vi era il quadro della Madonna d’Alemanna e cinse prima il capo del Bambino e poi quello della dolcissima immagine della Regina del Cielo con le corone auree tempestata di gemme, corone donate dal popolo in una gara di affetto che spinse i fedeli a privarsi anche di preziosi monili. Al gesto dell’incoronazione del presule e al grido di “Viva Maria” del popolo seguì un’incontenibile esultanza mentre la banda musicale, al suono a gloria delle campane e allo sparo di tonanti mortaretti, intonava l’inno pontificio. Successivamente il sindaco Vella, dopo l’offerta del cero, lesse la preghiera dell’atto di consacrazione del popolo di Gela alla sua Augusta Patrona.

    La corona aurea fu così consegnata alle Dignità dell’Insigne Collegiata, eretta nella chiesa Madre fin dal 1817, rappresentata dal parroco Mons. Gioacchino Federico, dal Rev. Rosario Damaggio e dal Rev. Antonino Di Fede. Le stesse Dignità prestarono il prescritto giuramento di rito in virtù del quale s’impegnavano a tenere sempre apposta sul capo della vergine la corona aurea donata ed a conservarla in perpetuo. Subito dopo si procedette al rito della benedizione e a quello della solenne incoronazione.

     Dopo la benedizione della folla del cardinale e l’intonazione del “Te Deum” di ringraziamento, l’On. Aldisio, a nome del comitato cittadino dei festeggiamenti, offrì al cardinale Micara una medaglia d’oro con l’effigie della Madonna ed una di argento ai vescovi presenti. Terminata la cerimonia si formò una solenne processione che percorse le principali vie cittadine, seguita dal corteo delle autorità civili e religiose e da un’immensa fiumana di popolo. Nella tarda serata, dopo il rientro dell’Icona della Madonna col Bambino in chiesa, in piazza Umberto I si tenne un gran concerto di musica sacra con la partecipazione del complesso orchestrale e corale del Teatro Massimo di Catania che eseguì brani di Hendel, Gounod (Ave Maria), Schubert e Rossini (Stabat Mater). Dopo il sorteggio di 40 nominativi di bambini orfani e poveri per essere accolti gratuitamente nell’Educatorio “Regina Margherita” di Gela e in quello di Vittoria, la giornata dell’incoronazione si concluse con due grandiosi e suggestivi spettacoli pirotecnici.

     Alla cerimonia presenziarono eminenti personalità civili e religiose. Si ricordano oltre all’On. Salvatore Aldisio, il Presidente della Regione Siciliana On. Francesco Restivo, il Comandante la Legione Carabinieri di Palermo Col. Giulio Smecca, il Vescovo della nostra diocesi Mons. Antonino Catarella, gli Arcivescovi di Catania, Mons. Guido Bentivoglio, di Morreale, Mons. Francesco Carpino, e i Vescovi di Noto, Trapani, Ragusa e Caltanissetta. Sullo stesso sagrato, prima della solenne cerimonia, fu stilato dal notaio Dott. Renato Mattina un verbale di consegna (atto n.33623, fasc. n.6830 del 19/09/1954) che vide come testimoni gli stessi Aldisio, Restivo, Smecca e Vella.

UNA TRADIZIONE DI ORIGINE ORIENTALE

 

    La festa della Natività dell'8 settembre, così come quasi tutte le principali solennità della Vergine Maria, è di origine orientale e probabilmente le prime ricorrenze liturgiche risalgono al VII secolo. Diverse sono le tradizioni che ci riferiscono sull'origine dell'effigie della nostra Patrona, una di esse, di epoca assai remota, tramanda che fu portata da alcuni viandanti ebrei, i quali attraversando il nostro territorio ed essendo stati qui ospitati, in segno di ringraziamento, la donarono ai nostri abitanti; essi, in memoria del cibo inviato miracolosamente dal cielo da Dio agli Israeliti durante il loro attraversamento del deserto, la chiamarono Madonna della Manna. Un'altra tradizione vuole che l'icona della Madonna sia stata portata dall'ordine religioso dei Teutonici di Santa Maria de Alemanna, fondato nel 1190 a S. Giovanni d'Acri (cittadina dello Stato d'Israele), da abitanti di Lubecca e Brema e trasformato nel 1198 in ordine cavalleresco. Secondo la testimonianza dell'abate Rocco Pirro, il culto a Maria Ss. D'Alemanna trae la sua origine proprio dal suddetto ordine religioso dei Teutonici che stabilì nella nostra città un Tempio ed una Casa, dipendente dalla Magione di Palermo, per alloggiare i pellegrini che si recavano a Gerusalemme. La data dell'insediamento, facendo riferimento ad una identica fondazione avvenuta nella città di Messina, dove esistono una via ed una chiesa dedicate entrambe a Maria Ss. D'Alemanna, dovrebbe porsi intorno al 1220 o comunque non più tardi del 1243, poichè nelle tavole del notar Pietro de Fronda di Adernò si legge che il presbitero Filippo Francesco il 2 aprile 1243 istituiva suo erede "...Fr. Fridericum Theutonicum prò parte ecclesiae Sanctae Mariae Theutonicorum quae est in Heraclea." ed Heraclea era la denominazione antichissima della nostra città, denominazione che ancora oggi si riscontra nei registri delle parrocchie di Gela. I Teutonici furono chiamati nell'Isola Alemanni (nell'uso poetico e letterario col nome di Alemanni si trovano spesso indicati i Tedeschi) e perciò la chiesa di Santa Maria dei Teutonici era la chiesa di Santa Maria degli Alemanni o dell'Alemanna.

 IL RITROVAMENTO DELL’ICONA DELLA MADONNA

 

    Le incursioni barbaresche, in particolar modo quelle dei Saraceni, costringevano gli abitanti a nascondere le loro glorie religiose più care e fu un bene perchè esse, nonostante le distruzioni della città, si salvarono. Infatti, diversi racconti popolari, tramandatisi da generazione in generazione, parlano del rinvenimento della veneranda icona di Maria Ss. d'Alemanna in un modo miracoloso intorno al 1476. Si narra infatti che un contadino mentre arava la terra si accorse che i suoi buoi non proseguivano più; pensando che si trattasse di un ostacolo proveniente da qualche corpo duro sottostante al terreno, si mise a scavare, anche con la segreta speranza di trovare un tesoro nascosto, ma quale fu la sua meraviglia quando cominciò a comparire una tavola sulla quale s'intravvedeva un’immagine dipinta: era l'effigie della Beata Vergine. Nel momento stesso in cui estrasse dal terreno l'intero quadro, i! contadino si accorse che i due buoi si erano inginocchiati. Il luogo del rinvenimento fu indicato dietro l'altare maggiore del Santuario di Maria Ss. d'Alemanna che allora minacciava rovina.

    I nostri abitanti attirati dal culto della santissima icona, ricostruirono la chiesa e la dotarono di tenute e di rendite. La chiesa di Maria Ss. d'Alemanna, con una non comune facciata in stile neoclassico con colonne di ordine ionico, riaperta al culto nel 1814 dopo che fino all'anno prima era servita come lazzaretto per i vaiolosi, oggi non esiste più, fu diroccata agli inizi degli anni Settanta perché le mura perimetrali erano pericolanti.

    Nella seconda metà degli anni Ottanta, con una questua che interessò larghi strati della nostra popolazione, si diede inizio sullo stesso sito ai lavori per la nuova edificazione del Santuario.

IL TERREMOTO DEL 1693

 

    Paolo III, nel 1458, fa menzione del culto della Madonna in occasione di un diritto di patronato e, in un documento del 1627, Maria Ss. d'Alemanna è chiamata Protettrice e Patrona   della città, ma ufficialmente questi due titoli gli furono conferiti verso il 1650 in seguito alla Bolla Universa di Urbano VIII. Gli atti di proclamazione furono stilati nella nostra città nel dicembre del 1659 e poi nel marzo del 1693, in quest'ultimo anno in particolare, in occasione del famoso terremoto che distrusse molte città dell'Isola e mietè molte vittime nella sua parte orientale. In numerosissime circostanze, il popolo ha potuto constatare l'efficace protezione della gloriosissima Madre di Dio.  

    Ma è da segnalare lo scampato pericolo proprio dal suddetto terremoto dell'11 gennaio del 1693. Le scosse telluriche furono violente, tant’è che in uno slancio corale di fede il popolo potè attribuire la salvezza della città solo alla protezione della Vergine. E ancora, in diverse città dell'Isola, come Bufera, Niscemi, Caltagirone, Piazza Armerina, ecc., il popolo ricorda i famosi versi:

 "All'unnici 'i Jnnaru a vintun'ura

Si vitti e nun si vitti Terranova.

Se 'unn'era ppi Maria Nostra Signura

Sutta li petri fussi Terranova."

    Lo sbarco degli Alleati a Gela, avvenuto il 10 luglio 1343, quando la città fu fatta segno ad un violento bombardamento navale che avrebbe dovuto produrre danni incalcolabili, ma si attribuisce ancora alla protezione della Patrona se la città di Gela non fu distrutta.

 

L’EFFIGIE BIZANTINA DELLA MADONNA D’ALEMANNA

 

    L’icona bizantina di Maria Ss. d’Alemanna, protettrice e Patrona di Gela, è un dipinto su fondo oro con la Madonna vestita di “maphorion” (mantello) blu cosparso di stelle dorate La Madonna con una dolcezza tutta materna adagia delicatamente una guancia sulla testa del Bambino già grande che poggiato sul braccio destro della Madre ci dà chiare le caratteristiche dell’infanzia oltre a sembrare di nutrire pensieri profondi che fanno presagire la sua natura divina.

    L’arte dell’anonimo pittore arriva veramente ad espressioni sublimi, unendo, insieme all’eleganza del gruppo, una tale molteplicità di sentimenti da animare d’un senso soprannaturale l’immagine del Figlio di Dio fatto uomo e della sua gloriosa Madre. La tecnica della luce nell’icona mariana del tipo Odigitria (cioè che indica la via) senza digrammi è la cosiddetta luce propria. La luce emana dal fondo d’oro. Sulle icone non c’è mai una sorgente di luce, perché è la luce il loro soggetto: non si illumina il sole. Il fondo e tutte le linee, le sottolineature d’oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale. I colori, specie quelli delle vesti, sono ravvivati con riflessi di luce. Però, i riflessi non sono posti come se venissero da una sorgente luminosa, ma nei punti più vicini all’osservatore. L’icona non vuole dare l’illusione della realtà generata dall’opposizione luce-ombra. Non vi è una sorgente di luce, l’immagine e la luce non sono separate e la luce irradia direttamente verso chi osserva.

    La tridimensionalità non esiste; la prospettiva d’importanza riguarda le proporzioni delle figure; la posizione degli oggetti e la loro grandezza non sono naturali, ma spesso relativi al valore delle persone o delle cose. Quello che conta è il simbolismo della rappresentazione, tutto è dominato dal volto, perché è da qui che il pittore prende le mosse. L’immagine della Madonna a mezza figura che tiene col braccio destro il Bambino in riconoscimento di preminenza rappresenta un’icona Dexiokratousa (sorregge il Figlio con la mano destra) che è rara.

    La figura della Madonna balza da uno sfondo color oro con un aspetto materno profondamente umano, delicato, quasi mesto caratterizzato da un ovale viso aquilino con sopracciglia lineari, il naso allungato, sottile, diritto, il mento tondeggiante e la bocca piccola con labbra carnosette. Il Bambino, in posizione di anapeson-statico (reclinata) con occhi aperti rivolto verso chi guarda, volge le spalle alla madre e poggia la nuca verso la Madonna che lo sorregge su un fianco appoggiandosi con una guancia. Il Bambino mentre ci dà chiare le caratteristiche dell’infanzia, sembra anche nutrire pensieri profondi che fanno presagire la sua natura divina. Gli occhi della Madonna e quelli del Bambino sono stretti e incavati, forse rifatti così come probabilmente rifatti risultano la mano e il braccio del Bambino che appaiono tozzi e non ben proporzionati. La veste della Madre è di color marrone con un manto blu adornato di stelle dorate (le stelle rappresentano la sua perpetua verginità) e di decorazioni e fregi a girali in oro; secondo alcuni autori Il manto blu rappresenta sia la vita terrena che la volta celeste mentre il velo bianco, che s’intravvede sotto lo stesso manto, è simbolo di purezza mentre il vestito rosso (il colore degli imperatori) del Bambino simboleggia la divinità.     

    Sull’autore del dipinto si hanno riferimenti leggendari o troppo vaghi, come quello dello storico locale Fra’ Benedetto Maria Candioto, priore del Convento del Carmine intorno al 1700, che l’attribuiva alla mano di San Luca o come l’altro di un pittore fiorentino del IX secolo, tale Luca Santo. L’icona della Madonna nel tempo ha subìto diversi restauri, più o meno grossolani, e forse proprio in uno di essi, eseguito intorno alla prima metà dell’Ottocento, furono cancellati gli angioletti che volteggiavano sul capo della stessa Madonna, ipotesi questa del compianto parroco Mons. Gioacchino Federico. Degli ultimi due restauri di fonte certa il primo risale al 1927, al tempo dell’ufficio del parroco Francesco Capici, quando l’icona fu inviata tramite il Prof. Mela alla Scuola Restauri Pitture dei Musei Vaticani a Roma e restaurata dal Prof. Virgilio Parodi; il secondo risale al 1991 realizzato sempre dalla stessa scuola romana.

    Sia l’icona originaria della chiesa Madre sia la copia che si trova nell’altare del santuario (dovrebbe essere al contrario), sono inserite in raggiere, definite “macchinette”, con angioletti; la raggiera della chiesa Madre risale al 1792, l’altra del santuario dovrebbe essere più antica, forse del XVII secolo.

 

LA FESTA DELLA PATRONA

 

    Come ci riferisce lo storico terranovese Salvatore Damaggio Navarra nella sua pubblicazione “Maria d’Alemanna in Terranova” del 1915, l’immagine della Madonna, chiamata dal popolino “Saccareddra” (ovvero acquaiola perché dispensatrice di pioggia), portata dai contadini nella “macchinetta” (“…una magnifica sfera di legno dorato” del 1792) era trasferita dal suo santuario alla città in corteo solenne tre volte l’anno, presenti il Governatore e i Magistrati in eleganti carrozze, seguita da tutto il popolo e in particolare dalle donne a piedi scalzi che avevano fatto un voto alla Madonna; in gennaio alla chiesa del Carmine, in occasione dell’annuale ricorrenza del terremoto del 1693, e per le altre due volte alla chiesa Madre rispettivamente nel mese di maggio, con una solenne esposizione, e nell’ultima domenica di agosto per dar corso ai festeggiamenti patronali del successivo otto di settembre che sono stati sempre grandiosi e religiosamente sentiti

    La festa della Madonna d’Alemanna o della Manna (sui volantini e manifesti antichi si leggeva solamente Madonna della Manna) era di regola, ma non sempre, effettuata in quattro giornate, in genere dal 5 all’8 di settembre. Al di là della sola domenica, i festeggiamenti si svolgevano con qualche eccezione sempre a partire dalle ore pomeridiane per evitare che i contadini interrompessero il lavoro dei campi. Il 5 settembre, già dalle ore 7, si annunciava l’inizio dei festeggiamenti con il suono delle campane della chiesa Madre e lo sparo di mortaretti, la cosiddetta “maschiata”, che nel silenzio dei tempi passati si udiva in tutto il paese. Per tutta la mattinata non c’era altro, tranne qualche volta verso mezzogiorno un concerto bandistico in piazza Umberto I. Così a partire dalle ore 17 iniziava la banda cittadina, formata in genere da quaranta elementi, suonando per il Corso e per via XX Settembre (oggi Corso S. Aldisio), per chiamare a raccolta le persone in modo tale che un’ora dopo assistessero alla corsa dei cavalli, il cosiddetto “Palio della Madonna”. A volte alla festa partecipavano anche altre bande cittadine provenienti da Vittoria, Comiso, Noto, Casteltermini e addirittura dall’Aquila. E quando ciò avveniva la banda musicale di Gela andava nel tardo pomeriggio alla stazione per accoglierne l’arrivo.

    Per la popolazione un punto di forte attrazione della festa era la corsa dei cavalli (‘u paliu da’ Maronna ‘a Manna); consisteva in una gara di due cavalli con fantini, e qualche volta anche senza, tutti addobbati con divisa a colori sgargianti che partivano allo sparo di un grosso petardo (un “corpu di mascuni”) da Molino a Vento a est del centro murato. Il percorso si snodava lungo tutta l’arteria principale del Corso fino al Camposanto, da lì, dopo l’esplosione di un altro petardo, si invertiva la corsa per rifare lo stesso percorso fino al traguardo che era posto nei pressi della “chiazziteddra” (piazzetta), all’incrocio tra il Corso e via Porta Marina (oggi via Marconi). Durante la gara i marciapiedi del Corso, dalla “chiazziteddra” ai “Quattro Canti” (oggi piazza Martiri della Libertà) erano transennati con travi legno. Di queste corse oggi, che lo scrivente sappia, non esiste nessuna fotografia, ma per chi non ha mai assistito può farsene un’idea osservando un acquerello di Salvatore Solito.

     I cavalli utilizzati per le corse provenivano in genere dal Marocco ovvero dalla Barberia, un’antica denominazione di diverse regioni del Nord-Africa, e per tale provenienza erano chiamati “bèrberi”. Ma oltre a questo tipo di cavalli ne esisteva un altro, utilizzato anche per le gare durante i giorni della festa; erano i cosiddetti “Giannetti” o “Ginnetti”, cavalli da corsa di razza spagnola piccoli e snelli.

     I premi per i vincitori delle gare erano spesso in denaro e ciò a seconda del tipo di cavallo utilizzato nella corsa; nel 1901 ad esempio i premi erano di 30 e 40 lire rispettivamente per i fantini delle giumente e dei cavalli e di 60 lire per quelli dei giannetti. Gli equini durante tutti i giorni della festa avevano lo stallaggio gratuito a spese del Comune nei vari fondaci (i cosiddetti “funnichi ‘i tavula”) ubicati in periferia, tipo quello che funzionava in via Generale Cascino, vicino all’ex mercato ortofrutticolo di piazza Enrico Mattei, nel quartiere di Porta Caltagirone.

    In chiusura della prima giornata di festa, nella villa comunale si poteva assistere ad un concerto bandistico che iniziava alle 20,30. I musicanti si posizionavano nell’armonium, un grande gazebo in stile liberty, ubicato in uno spiazzo a qualche decina di metri dal soprastante Corso, in modo tale che il concerto potesse essere seguito da un maggiore numero di spettatori. L’armonium era un grande palco di forma circolare con caratteristica ed artistica copertura a cupola che troneggiava di fronte all’ingresso della nostra villa comunale; non si sa con precisione quando fu costruito, probabilmente si trattava di una struttura realizzata verso la fine dell’Ottocento.

    Tale palco serviva ad ospitare la banda musicale che oltre ai periodi di festa, quasi con cadenza settimanale, eseguiva dei concerti con musiche dall’Africana di Meyerbeer, dal Mefistofele di Arrigo Boito, del Pescatore di perle di Bizet, della Gioconda di Ponchielli, dell’Elisir d’amore di Donizetti e di altre opere che incantavano l’animo della gente. I concerti si protraevano fino alla mezzanotte, nel silenzio oggi inimmaginabile della villa comunale, affollata di gente vestita a festa e attratta da un’atmosfera di serenità e armonia la quale poi a fine concerto sottolineava con applausi la bravura dei musici. Allora le possibilità di ascoltare musica erano piuttosto rare, a quei tempi non c’era la televisione e la radio e i grammofoni erano un lusso che pochi potevano concedersi. Nel corso dei decenni numerosi e di notevole talento furono i direttori e i musicanti della nostra banda, in particolare si ricordano i maestri, Alfredo Casella, Antonio D’Ayala, Francesco Renda e don “Pippineddru” (Giuseppe) Navarra, quest’ultimo poi fondatore di una scuola di musica divenuta col tempo Liceo Musicale; ed ancora i Proff. Clemente Di Santo, Umberto Salafìa, Salvatore e Nicolò Lumia, Luigi Casciana, Gaetano Milana, Ernesto Cipolla, Giuseppe Favitta, Nicolo Romano, Giuseppe Cali, Emanuele Catania, Gino Felice, Giovanni Giarrusso, Margherita Vullo, Silvestre Tignino ecc.

     Durante le giornate della festa, prima dell’introduzione della corrente elettrica, che qui avvenne nel 1908, oltre alla normale illuminazione a petrolio dei lampioni si utilizzavano diversi tipi di luminarie come lampade ad acetilene, palloncini alla veneziana (un involucro di carta, bianca o colorata e spesso pieghettata, di forma sferica o cilindrica, con dentro un lumino o una candela) e fuochi di bengala (fuochi colorati che si usavano in Bengala, una regione dell’India, come segnali nella caccia alla tigre); questi ultimi durante la processione della Patrona erano posizionati lungo il Corso e via XX Settembre. Per quanto riguarda i fuochi d’artificio più consistenti e cioè le cosiddette “bombe ad uso baiocchi” (ovvero delle bombe a ripetizione con cascate concentriche di faville variopinte) e la “macchina pirotecnica”, data la loro pericolosità erano accesi in luoghi allora disabitati come “’u Chianu de’ Surfareddra” (cioè Piano dei Solfarelli appunto dal nome, prima che si costruissero le case  del quartiere Toselli prospiciente l’attuale via Colombo) e “’u Mulinu a Ventu” (Molino a Vento) il quartiere ad est della città nella zona del Calvario.

      Nella giornata del 6 settembre, oltre alle manifestazioni di cui sopra, iniziava di primo mattino verso le otto “’u pagliantinu”, ovvero il palio dell’antenna, una gara che poco aveva a che fare con tale gioco; infatti, si trattava di una trave insaponata sostenuta orizzontalmente alle sue estremità da due tripodi impiantati sul fondale a una cinquantina di metri dalla battigia e a poca distanza dal pontile sbarcatoio. Su tale trave scivolosa i giovani partecipanti baldanzosi dovevano funambolare per non finire a mare e per arrivare da un capo all’altro e vincere l’agognato premio prendendo in mano la bandierina posta alla fine. Durante tale gara, oltre alla presenza della banda musicale che suonava nei pressi della battigia, vi era una notevole moltitudine di persone che dalla spiaggia e dal pontile incitavano divertite i gareggiatori.

     Dalla “Tribuna Illustrata” del 1906, un settimanale a tiratura nazionale, a proposito di questa gara si riporta qui di seguito uno stralcio di un suo articolo: "Qui la cuccagna è diversa. L'antenna è impiastricciata di materie untuose e sdrucciolanti pronta a ricevere e a far scivolare i corridori del mare e che poggia orizzontalmente su due tripodi infissi sul fondo sabbioso della nostra ampia e bella spiaggia… …tutto questo in mare alla distanza di una cinquantina di metri dalla spiaggia”. “…Ecco la corsa: ragazzi, giovanotti, uomini maturi, per lo più tutti del ceto marinaresco, tentano di raggiungere l’altra estremità dove è posto il premio che consiste in una cinquantina di lire tra denaro e oggetti di vestiario. Si arriva a vincere il premio dopo molti stenti e dopo un mondo di sdruccioloni che producono inevitabilmente il tonfo in mare, ma tonfi da acrobati che spingono all’ilarità più irrefrenabile. Molti assistono a questo passatempo popolare che è allietato al suono della banda musicale: e le plaga di mare in quell’ora mattutina è popolatissima di barche, zattere ricolme di spettatori, sandalini scivolanti su per le placide acque, nuotatori dai vicini stabilimenti balneari - insomma una festa di luce e di sole tra la fresca brezza marina”. Tutte queste manifestazioni erano ripetute nei giorni a seguire fino all’ultimo dell’8 settembre con in più le messa solenne di mattina e la processione dell’icona della Madonna nelle vie della città.

      Una tradizione caratteristica, soppressa all’inizio degli anni Sessanta in concomitanza con la messa in esercizio degli impianti del petrolchimico, era quella del lancio dei “palloni umoristici” che avveniva in prima serata subito dopo la corsa dei cavalli. Si trattava di palloni di diverse dimensioni di carta leggera e a forma di persone, animali, oggetti vari e persino figure della Patrona, che grazie all’aria calda del loro interno, mantenuta tale da una fiamma prodotta con un supporto sulla base dello stesso pallone, riuscivano ad alzarsi e volare via, seguite dagli sguardi sempre meravigliati della popolazione. Addirittura in una festa della Patrona dei primi del Novecento ”…alle ore 12 e1/4, ascensione in gran pallone della celebre aeronauta Miss Centofanti che farà degli esercizi spettacolari sul trapezio durante l’ascensione nella piazza Umberto I, già Duomo”.

    Sempre in riferimento ai giorni di festa “…La Direzione delle Strade ferrate della Sicilia ha concesso che i biglietti speciali di andata e ritorno da emettersi dalle stazioni di Caltanissetta e Vittoria abbiano la durata dal girono 5 a tutto il giorno 9 settembre”.

 

 

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