QUOTIDIANO
La Sicilia
DISTRETTO GELESE
Agosto 2023
ARGOMENTI
A
partire dal mese di gennaio si è iniziato a
scrivere sulla storia di Gela, dalla sua
fondazione del 688 a.C. fino al dopoguerra. E
ciò con il contributo iconografico del pittore
Antonio Occhipinti e con le schede realizzate da
Nuccio Mulè, oltre alla traduzione in inglese
della Prof.ssa Tiziana Finocchiaro. Oggi si
scrive la settima puntata dal titolo "La prima
distruzione di Gela".
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La prima
distruzione di
Gela La grande rapina Il Cav. Giuseppe Navarra Cartolina di oggi: Via XX Settembre |
7 -
PRIMA DISTRUZIONE DI GELA
Nella plurisecolare
storia di Gela sono accaduti due eventi
singolari che, pur a distanza di duemila anni
tra loro, hanno avuto un’unica denominazione:
“La Battaglia di Gela”; la prima nel 405 a.C.,
la seconda in epoca recente (10-11 luglio del
1943). Battaglie cruente che hanno lasciato il
segno nella memoria storica della città.
La scena della
“Battaglia di Gela”, che è qui rappresentata con
un effetto d’insieme dinamico, si riferisce al
periodo classico, quando l’esercito cartaginese
al comando di Imilcone, uno dei più grandi
condottieri punici, espugnò e distrusse Gela
nonostante l’intervento di Dionigi, tiranno di
Siracusa di cui Gela e Agrigento erano
confederate.
Occhipinti
circoscrive diverse scene d’immediatezza
espressiva che, nella loro significazione,
vogliono fornire l’idea non solo di una cruenta
lotta tutta all’arma bianca tra cartaginesi e
geloi ma anche di come gli stessi cartaginesi si
siano accampati a ridosso della città e del suo
fiume prima di dar corso alla battaglia. Nel
riquadro superiore s’immagina la città di Gela
messa a ferro e fuoco dai vincitori poiché dalla
sommità dei suoi edifici s’intravvedono lingue
di fuoco divoratrici e foriere di morte e
distruzione.
La scena principale,
mirabilmente rappresentata nel centro della
contesa e efficacemente stagliata grazie ad una
maggiore tonalità di colori rispetto a quelli
attenuati delle figure dello sfondo, fa vedere
in primo piano il comandante cartaginese
Imilcone davanti le mura della città, la cui
porta d’ingresso sta per essere scardinata
dall’azione di un ariete, mentre fiero e ormai
sicuro avanza col suo cavallo tra ruderi di
edifici e guerrieri in lotta; qui un oplita
geloo barcollante, infilzato già dalla spada di
un guerriero cartaginese, sta per cadere vicino
a un suo compagno d’armi disteso a terra, già
privo di vita.
Infine, nella parte
sinistra mediana, all’interno debordante di un
ridotto ovale, è raffigurato il volto del
tiranno siracusano Dionigi con uno sguardo
enigmatico e compassato come a voler presagire,
dopo l’imminente sconfitta, a quel patto di non
belligeranza sancito dopo con gli stessi
cartaginesi vincitori.
7 - First destruction of Gela
Two main events
occurred in different times in the history of
Gela, in 405 B.C. and on July 10, 1943, have
both the name of Battle of Gela.
The scene of the
Battle of Gela, which is here represented with a
dynamic effect, refers to the classical period,
when the Carthaginian army under the command of
Imìlcon conquered and destroyed Gela despite the
support of Dionysius, tyrant of Syracuse.
Occhipinti evokes
the idea of the bloody fight between the Geloi
and the Carthaginians camped next to the city
and its river before starting the fight. On the
upper part of the painting, Gela is burnt by the
victors while tongues of fire appear from the
top of its buildings.
The main scene is
enhanced through shades of color, and shows the
Carthaginian commander Imilcon advancing on
horseback among ruins and warriors, standing in
front of the city walls; the city door is about
to be unhinged by a ram. Nearby, a staggering
hoplite, already pierced by the sword of a
Carthaginian warrior, is about to fall near a
dead comrade-in-arms lying on the ground.
On the left, the
tyrant Dionysius with an enigmatic and serious
gaze, seems to foresee, after the oncoming
defeat, the non-belligerence pact signed with
the victors, the Carthaginians.
LA GRANDE RAPINA
In linea di massima,
però, leggendo e rileggendo la pubblicazione dei
suddetti scavi realizzata dallo stesso Orsi (dal
titolo "Gela, scavi del 1900-1905” della
tipografia della R. Accademia dei Lincei, Roma
1906) si può avere un'idea del depauperamento
archeologico perpetrato allora ai danni del
patrimonio archeologico di Gela. Infatti,
contando per prima i reperti archeologici
descritti da Orsi nelle 786 sepolture del VII,
VI e V sec. a.C. messe in luce nelle necropoli
del Borgo ed in altre zone del territorio
urbano, si è ricavato un totale di 1.798 reperti
di vasellame recuperati tutti integralmente; nel
computo non sono stati considerati i vari
tesoretti sporadici di monete e i numerosi
oggetti in bronzo.
Per quanto riguarda
invece i frammenti (molti con figure e
iscrizioni) non ricomponibili, con un calcolo
approssimativo siamo arrivati ad un numero
orientativo di 6.000. Se poi ai suddetti numeri
si aggiungono quelli degli altri reperti
archeologici venuti alla luce nelle allora zone
periferiche gelesi di Bitalemi, Capo Soprano,
Costa Zampogna, Molino a Vento, ma anche in
diversi poderi della circostante campagna, si
arriva a qualcosa come 4.000-5.000 reperti
archeologici integri e a diverse decine di
migliaia di frammenti non ricomponibili. Oggi di
tutta questa mole di reperti che allora furono
trasferiti nel museo di Siracusa è esposta solo
una minima parte (nella sezione “C”), mentre la
stragrande maggioranza si trova depositata negli
strapieni scantinati da quasi 120 anni.
Incredibile, ma vero!!
Ai suddetti numeri
per carità cristiana non vogliamo aggiungere
quelli riferiti ai reperti archeologici che si
trovano ufficialmente esposti nei musei italiani
ed esteri come quelli di Palermo (compresa la
raccolta della fondazione Mormino dell’allora
Banco di Sicilia), Agrigento, Napoli, Torino,
Bologna, Firenze, Milano, Londra, Oxford,
Berlino, New York, Boston, Cambridge, Baltimora,
Tampa, Yale, Rhode Island, Basilea, Stoccarda,
Vienna, Hamburgo, Zurigo, ecc.
Ovviamente se poi si
considerano i numerosi reperti archeologici,
monete comprese, trafugati clandestinamente dal
1860 (e anche prima) fino ai nostri giorni
(appannaggio maggiormente di collezioni
private), allora veramente si può affermare che
Gela e i gelesi hanno subìto una delle più
grandi rapine archeologiche forse mai avvenuta
al mondo in tempi moderni.
Ma non è tutto. La
grande rapina è continuata a danno del nostro
patrimonio archeologico anche in tempi recenti;
prima negli anni Settanta con il trasferimento
di migliaia di reperti, dal Museo Archeologico
di Gela a quello di Caltanissetta, dopo, tra il
1999 e il 2001, di
936 (novecentotrentasei)
cassette zeppe di reperti archeologici ritrovati
diversi decenni fa a Gela e nel territorio
d’influenza geloa; reperti peraltro tutti
inventariati e quindi ancora riscontrabili nei
registri del nostro museo archeologico, tantè
che si è in grado di riportarne qui di seguito
alcuni esempi di ritrovamenti a Capo Soprano,
Manfria (contrada “I Lotti”), Via Indipendenza
(proprietà Catania), Benedettini, via C.
Colombo, Villa Jacona, Monte
Canalotti-Fastucheria, Petrusa di Niscemi e
persino in uno dei tanti scavi subacquei della
nave greca di Gela; ecco sinteticamente gli
esempi di reperti trasferiti:
anfore
di origine greco-italica del IV sec. a.C.,
brocchette e bacini acromi, monete bronzee di
Età agatoclea e punico-siceliota, punte di
lancia, numerosi vasi di diverso tipo e misura,
testine femminili, oscilla e lucerne, lekythoi
attiche a figure rosse con importanti
figurazioni, olpai di diversa misura, pithoi,
anelli in bronzo e argento, piatti, coppette,
antichi chiodi di ferro e bronzo, antefisse
gorgoniche, patere, statuette fittili, reperti
dell’Età del Bronzo antico della facies di
Castelluccio, vasi protostorici a fruttiera e
clessidra, olle globulari con decorazioni,
pentole da fuoco, un’enorme quantità di corredi
funerari e così via.
Diversi lustri fa, a
questo impressionante numero di cassette
trasferite a Caltanissetta, se ne stava per
aggiungere un altro di minore consistenza del
Museo di Gela che, però, fortunatamente non è
andato in porto in coincidenza del cambio della
direzione del locale museo. E per ultimo, visto l’andazzo della situazione, ci chiediamo che fine faranno i numerosi reperti che sono depositati presso la sede distaccata della Soprintendenza nei locali di Bosco Littorio a Gela? Che si sappia, finora sono tutti lì, ma fino a quando!! Anche se una parte di essi sono contenuti in cassette nel cortile senza nessuna copertura. Sui reperti della suddetta sezione bisogna vigilare affinché non facciano prima o poi la stessa fine dei precedenti.
LA BARA DEL CAV. NAVARRA
DA UTILIZZARE COME ARIETE
Il corteo di
migliaia di persone che seguiva il feretro si
fermò sullo spiazzo antistante all’ingresso sud
della Chiesa Madre, aspettando che la salma del
Cav. Navarra fosse introdotta nella chiesa per
l’estrema unzione. Nella stessa mattinata tra il
clero di Gela ed alcuni amici dell’estinto ci
furono febbrili incontri affinché il parroco
della Chiesa Madre, Mons. Gioacchino Federico,
si convincesse a dare il nullaosta all’ingresso
in chiesa della salma, anche per una semplice
benedizione.
Il Cavaliere era un
galantuomo, possedeva una carattere mite ed era,
inoltre, un fervente cattolico. Però, militava
nel Partito Socialista Italiano e ciò gli
impediva di essere ammesso da morto in chiesa,
anche se qualche giorno prima, da vivo, aveva
preso la comunione nella Chiesa di
Sant’Agostino.
Mentre passavano i
minuti la folla rumoreggiava sempre più forte;
da diversi punti del corteo si iniziarono a
levare grida ed epiteti all’indirizzo del
parroco e della curia. Alcune centinaia di
persone spazientite dall’attesa, seguite dal
resto della folla, al grido “aprite la porta” si
diressero verso l’ingresso ancora chiuso della
chiesa riversandogli contro spintoni, pugni e
pedate; anche la bara del cavaliere Navarra,
passata intanto di spalla in spalla tra la
folla, arrivò fino al sagrato addirittura per
essere usata come ariete. Comunque, anche grazie
all’opera di invito alla calma dell’allora
Commissario di Pubblica Sicurezza Dott. Savoia,
chi si trovava dentro l’edificio si convinse ad
aprire la porta della chiesa, prima che la
stessa fosse sfondata.
Quindi, dopo la
provvida apertura del portone d’ingresso, la
folla si riversò in chiesa preceduta dalla bara
del Cavaliere che fu posta sul pavimento vicino
l’altare maggiore. Se le suppellettili non
furono danneggiate lo si deve al Prof. Vincenzo
Giunta, amico del Cavaliere e allora anche lui
militante del Partito Socialista Italiano, il
quale convinse il parroco a benedire la salma,
suo malgrado. Era il 10 febbraio del 1961. Nella
plurisecolare storia di Gela non era mai
successo che il popolo entrasse con furore in un
edificio di culto per invocare un principio di
cristiana eguaglianza.
Giuseppe Navarra nacque a
Terranova di Sicilia il 7 luglio 1888. Unico
rampollo di una famiglia aristocratica, fu
educato ai più nobili principi e virtù
dell’animo umano e suo padre Giacomo, già
sindaco di Gela dal 1904 al 1911, protagonista
di un’epoca amministrativa che è rimasta
indelebile negli annali del nostro Comune,
rappresentò per lui un costante esempio.
Terminati gli studi superiori si trasferì a
Milano dove frequentò con profitto il
Conservatorio di Musica conseguendo i diplomi di
Maestro di viola e di Direttore d’orchestra.
Durante la permanenza a Milano, la passione,
l’impegno e i risultati notevoli nello studio
della musica lo fecero diventare uno degli
allievi prediletti del grande Maestro Arturo
Toscanini dal quale gli fu affidato l’incarico
di “aiuto-bacchetta” per una tournèe in America.
La morte immatura del
padre, però, gl’impedì di iniziare quella
brillante carriera. Così nel 1911 ritornò a casa
per aiutare la madre ad accudire ai propri
averi. E qui la passione per la musica, che non
fu mai seconda nei suoi impegni, lo indusse a
fondare, a proprie spese, una Scuola Normale di
Musica che divenne poi liceo Musicale. Fu
propriamente per la riuscita e la continuazione
di tale scuola che il Navarra dilapidò parte del
proprio patrimonio.
Nel tempo, dalla sua
Scuola uscirono diversi allievi che riuscirono
ad occupare ruoli importanti in campo musicale,
di essi si ricordano: Luigi Casciana, primo
violino al Teatro Reale dell’Opera di Roma,
Salvatore Lumia, violoncellista al San Carlo di
Napoli, Gaetano Milana, primo violino
nell’Orchestra Filarmonica di New York, Nicolo
Romano, violoncellista nell’Orchestra Sinfonica
di Ginevra, Francesco Cacciatore, Emanuele
Catania e Emanuele Caruso, quest’ultimo divenuto
uno dei più completi e geniali liutai d’Italia.
Oltre alla musica s’interessò anche di politica,
tant’è che tra il 1938 e il 1940 ricoprì nel
nostro Comune gli incarichi di Commissario
Prefettizio prima e di Podestà poi.
Giuseppe Navarra si
può ritenere come uno dei pochi amministratori
che recepì veramente i problemi culturali della
città e le esigenze della popolazione, in modo
particolare quella dell’edilizia abitativa, e,
forse, fu l’unico a prevedere con quaranta anni
di anticipo l’esplosione dell’abusivismo
edilizio; a lui si deve anche l’aumento delle
entrate finanziarie del Comune, in particolare
con la revisione dei ruoli dei vari canoni
attivi, allora improduttivi da molti decenni.
Inoltre, nella qualità di Direttore della locale
“Associazione Amici della Musica”, riuscì a dar
vita ad una corposa serie di manifestazioni
artistiche con la presenza, tra l’altro, nel
nostro Teatro Comunale di famosi nomi come
Casella, Bonucci, Poltronieri, Brengola ed altri
ancora. Fu artefice anche della riapertura della
Biblioteca Comunale, chiusa da anni per mancanza
di personale, che affidò al compianto Prof.
Giovanni Mela.
Nel dopoguerra fu
candidato al Senato e all’Assemblea Regionale
senza però raggiungere il quorum necessario di
voti; ricoprì poi la carica di segretario
politico locale del Partito Socialista Italiano
e nel 1960 fu eletto consigliere comunale. Nel
1961, nella prima amministrazione di
centro-sinistra del Comune di Gela, gli fu
affidato l’incarico di assessore ai LL. PP.,
incarico che non poté espletare per la
sopravvenuta morte.
Nel 1998 il Comune
di Gela istituì una scuola musicale che fu
intitolata al compianto Cav. Giuseppe Navarra,
scuola che purtroppo da diversi lustri è chiusa
senza che nessun amministratore si sia mai
interessato a riaprirla.
CARTOLINA DI OGGI, VIA XX
SETTEMBRE
E
DENOMINAZIONE DI VIE DA SGHIGNAZZAMENTO
La cartolina degli
anni Venti qui presentata ritrae l’ex via XX
Settembre, oggi Corso Salvatore Aldisio, una via
che fino al 28 settembre del 1895 era denominata
Corso Borgo appunto perché lambiva il quartiere
del borgo di Gela, ad ovest della cinta muraria
medievale. Nella foto, oltre alla via, si vede
alla sua sinistra parte della Villa Comunale e
alla sua destra la sottostante via XXIV Maggio.
E ancora sullo sfondo si vedono il Convitto
Pignatelli con la torretta dell’orologio
pubblico, la strada che continua verso ovest
fino al quartiere San Giacomo e in fondo la
collina di Piano Notaro. Inoltre, lungo il
marciapiede di via XX Settembre, a distanze
regolari si osservano dei tralicci della
corrente elettrica e, dai balconi delle case
prospicienti via XXIV Maggio, delle canne dove
sono stesi ad asciugare dei panni.
Spesso attraverso
il complesso dei toponimi urbani e rurali,
ovvero le denominazioni delle vie di una città e
dei luoghi di campagna, è possibile conoscere o
verificare a grandi linee la storia locale di
quartieri e contrade, ma tutto ciò è un tabù per
gli amministratori; ed ecco così che da più di
un secolo a questa parte, ma in particolare nel
dopoguerra e a partire dagli anni Sessanta, è
avvenuto nel nostro centro storico (e non solo
nel centro storico) un’insensata e invalidante
rivoluzione sulla denominazione delle vie. Ad
esempio, uno degli ultimi cambiamenti più
inutile e più emblematico è stato quello
relativo all'attuale via Aretusa (la breve via a
nord di piazza Umberto I), già via Ex Giudicato
e ancora prima via Giudicato; la denominazione
di Ex Giudicato, prima del suo cambiamento, era
considerata un fattore negativo e socialmente
degradante per chi abitava nella strada in
quanto si era convinti che sulla stessa via
venivano fatti transitare i detenuti destinati
al vicino carcere del quartiere di Santa Maria
di Gesù; in realtà la denominazione della via lì
era riferita alla presenza del Giudicato
Circondariale di Terranova, una specie di
Municipio intercomunale, da cui dipendevano i
comuni mandamentali viciniori di Butera,
Niscemi, Riesi e Mazzarino e di cui Gela quindi
era capo-mandamento. Quando poi, dopo l’Unità
d’Italia, furono alienate le proprietà
ecclesiastiche, la struttura amministrativa del
Giudicato fu trasferita nell’antico convento
dell’Ordine Francescano in piazza San Francesco
e, pertanto, la strada fu ridenominata
giustamente via Ex Giudicato.
Nell'arco di un
secolo si è assistito impunemente alla
sparizione di quasi tutti i toponimi originali
di Gela che sono stati sostituiti con altri,
nella quasi totalità a casaccio facendo incetta
di santi, di dei della mitologia greca e romana,
di pianeti del sistema solare (sic), di città e
di stati dell'America Latina (vedi contrada
Scavone) e persino di strade consolari romane
(vedi quartiere del fondo Iozza), tanto...
“tutte le strade portano a Roma”. E che dire dei
cognomi di personaggi che, mancando del primo
nome sulle targhe, hanno costituito motivo di
ilarità, tipo “Pizzetti”, “Tosto”, “Tortini”,
“Bill”. “Cardillo”, “Lupi”, ecc.; per alcuni di
essi si è arrivati perfino al grottesco quando
ne sono state storpiate le relative
denominazioni: Eutimo al posto Entimo, Ducrezio
al posto di Ducezio, R. Bettini al posto di
Bettino Ricasoli, Bacetilide al posto di
Bacchilide, Archistrato con la “i” al posto
della “e”, ecc.
Nell'assegnazione
dei toponimi certe volte si è raggiunta una tale
ignoranza che persino a due acerrimi nemici di
Gela di epoca greca gli sono stati attribuiti
delle vie, ci riferiamo ad Agatocle tiranno di
Siracusa che nella prima metà del III secolo
a.C. - come narra Diodoro Siculo, lo storico
greco di Agira, - fece trucidare quattro mila
cittadini gelesi e al Tiranno agrigentino Finzia,
responsabile con i Mamertini della distruzione
definitiva della madrepatria Gela nel 282 a.C.
Un altro caso esemplare è stato quello di via
Venezia, l'antica trazzera Zammito, nominata
appunto tale per similitudine alla famosa città
della laguna veneta in quanto nelle giornate di
pioggia si allagava (e tuttora si allaga)
abbondantemente in diversi suoi punti (sic).
Sarebbe ora che il
Comune predisponesse tutti gli atti necessari
all'istituzione di una commissione di
toponomastica veramente funzionale e organica
per rivedere diverse ridicole denominazioni,
possibilmente aperta a diverse componenti ed in
particolare ai cultori di storia patria.
Esiste già un
precedente di tal genere e fu realizzato nel
1981 dall'allora sindaco Avv. Pippo Vitale e
continuato l'anno dopo dal suo successore Prof.
Totò Minardi. Difficile pensare che ciò possa
accadere. Un ultima annotazione che suscita ilarità e sghignazzamento per le incredibili denominazioni delle vie della frazione di Manfria; vie attribuite a caso utilizzando seraficamente voci di piante, fiori, frutti e alberi probabilmente tratti pedissequamente da un prontuario di Botanica; citiamo alcuni esempi: vie del Sedano, delle Ortiche, delle Rape, degli Anemoni, della Saponara, delle Sorbe, addirittura del Fieno e persino delle Stelle Alpine, delle Stelle del Mare, delle Noci, dei Rovi, ecc. |